[Shiny happy people # 8: Adem, Chalk Farm, Gennaio 2007]

Sabato sera, quando al fianco della sempre fascinosa Vashti Bunyan ho visto la figura simpatica di Adem non sono riuscito a trattenermi.

Adem lo conosco da anni, da quando al ritorno da un viaggio in Italia trovai tra la posta il suo primo disco. Mi sentivo terribilmente solo in quei tempi, e le delicate melodie di quel disco mi tenevano compagnia, rendendo sopportabili le mie serate domestiche - vivevo in una casa che chiamare casa e' un complimento: fuori sembrava un penitenziario di massima sicurezza, dentro aveva una rancida lurida moquette anche in bagno, pareti mai imbiancate, mobili Ikea distrutti di prima che l'Ikea esistesse. Erano i miei giorni da immigrato appena arrivato qui, sembrano passati secoli a ripensarci adesso e sono invece solo pochi anni. Tutto e' cambiato cosi' completamente che mi viene quasi nostalgia di quello squallore, non vi capita mai?

Poi, poco dopo, lessi di un festival organizzato da Adem in un piccolo teatro semi-abbandonato di Bloomsbury. Per due giorni si alternarono sul minuscolo palco nomi allora del tutto sconosciuti: Joanna Newsom, Jose Gonzales, Juana Molina. Headliners del festival erano Bill Callahan e Bert Jansch.

Tra un concerto e l'altro, a presentare i musicisti saliva sul palco questo ragazzo simpatico, con un sorriso irresistibile sotto una barbetta che non riusciva a nascondere la sua giovane eta'. Per due giorni vissi in una specie di estasi musicale sospesa. I concerti iniziavano alle 3 del pomeriggio e andavano avanti fino a tarda serata. Il pubblico ascoltava in silenzio, concentratissimo, seduto sul pavimento di legno della piccola sala. Tra un set e l'altro il silenzio concentrato non veniva interrotto: dalle tasche delle giacche di velluto tiravamo fuori i nostri libri in attesa del concerto successivo. Ogni tanto si usciva dalla sala per andare a prendere una tazza di te', poi si tornava di nuovo dentro ad ascoltare quelle delizie acustiche.

Il movimento neo folk, quello che ascoltate spesso a Prospettive Musicali, nacque in quel fine settimana. Non fossi stato in quel teatro, forse oggi ascolterei e trasmetterei qualcosa di completamente diverso.

In quei due giorni ho pensato spesso di avvicinarmi ad Adem e ringraziarlo per aver organizzato un festival cosi' originale e silenzioso. Non lo feci, e come sempre quando desidero esprimere un sentimento e non lo faccio mi pentii.

Cosi', ad anni di distanza, Sabato scorso mi sono avvicinato e ho detto ad Adem quanto lo considero una figura importante per la mia formazione musicale. Lui mi ha sorriso con il suo sorriso caloroso e mi ha detto tutto contento: "Eri alla Conway Hall in quel fine settimana? Davvero?! Beh, sappi che quello e' stato il fine settimana che ha cambiato anche la mia vita e i miei ascolti". Ci siamo guardati come si guardano vecchi amici. Abbiamo fatto percorsi cosi' simili da allora, alla ricerca continua di suoni che sappiano rendere piu' luminosa, naturale, sopportabile, colorata quella strana cosa agrodolce che chiamiamo vita.

In ritardo, ma sono stato cosi' contento di averlo, finalmente, ringraziato.

[Se ancora non lo conoscete, cercate assolutamente quel dischetto magico che e' Homesongs. Commuovetevi ascoltando "These are your friends", la piu' tenera ballata sull'amicizia che ricordo di avere ascoltato dai tempi di "You are my friend" dei Rain Parade. Sentite il cuore che si stempera nel silenzio notturno di "Pillow". E infine volate sulle ali di "There will always be", dove a un certo punto sussurra:

I hope you find
All you need in this life to get by

And if all the lights that lead you
Lead you to my door
It will always be open
There will always be lights on
There will always be room at my table to you].

Il sito di Adem lo trovate qui.

Commenti

Anonimo ha detto…
Ma quello della foto sono io! Dove mi hai fotografato?
Digio
lophelia ha detto…
cosa c'era sotto che rifletteva la luce? un piatto, un pezzo di stagnola, una torta millefoglie?
Viola ha detto…
Che bel sorriso..
Anonimo ha detto…
http://www.adem.tv/site/
Fabio ha detto…
Digio -

Se hai un sorriso come quello di Adem sei un uomo davvero fortunato!

Lophelia -

Pura luce riflessa di Adem! Peraltro a te "Homesongs" piacerebbe parecchio credo.

Viola -

Vero? Non riesco a immaginarlo imbronciato. La sua musica rispecchia il suo sorriso, sentirai.

Anonymous -

Grazie, credo tu sia arrivato prima che scrivessi il testo del post - la foto l'ho inserita ieri.
Anonimo ha detto…
Si è indiscreti nel chiederti come mai ti sei trasferito a Londra? Per lavoro, immagino, ma nell'ambito musicale o di altro genere? Ciao.

http://qohelet.blog.tiscali.it
Fabio ha detto…
Di fatto non mi sono trasferito a Londra per lavoro, quanto per introdurre un elemento di cambiamento nella mia vita. Sono nato in una piccola citta' di provincia e ho sempre sognato di fuggire e andare a vivere in una citta' piu' grande. Cosi' appena ho potuto sono mi sono trasferito a Milano. Il mio lavoro mi portava spesso a Londra, mi piaceva starci cosi' ho poi scelto di venier a vivere qui. Una volta qui mi sono reso conto che solo trovando "la mia citta'" - persone, percorsi, luoghi - sarei riuscito a sopravvivere senza impazzire. All'inizio non e' stato facile: un po' di solitudine, il sottile razzismo tipicamente inglese nei confronti di chi non parla la loro lingua piu' che perfettamente e con l'accento che piace a loro, la difficolta' ad integrarmi nell'ambiente di lavoro, il rifiuto di rifugiarmi all'interno dell'abbracio stritolante della comunita' italiana di qui, tutte queste cose stavano per avere le meglio. Per solitudine ovviamente non intendo la mancanza di persone attorno o con le quali uscire, ma la mancanza di rapporti profondi. Poi poco per volta, giorno dopo giorno, trovi persone e spazi che ti diventano famigliari. Di solito un po' "per salti" e per caso, non in modo costruibile o prevedibile.

Sono un po' partito per la tangente. Tornando alla tua domanda, ho scelto molti anni fa di non trasformare la musica in un lavoro. Non ho mai mandato un curriculum a una casa discografica. La musica l'ho sempre voluta lasciare al di fuori del commercio, del quale per altro tutti abbiamo bisogno per vivere. La musica vorrei che rimanesse semper per me uno spazio di liberta' assoluta, non assoggettata a regole, orari, scadenze, che sono poi le cose che caratterizzano il lavoro. Sono marxista dalla piu' tenera eta', il lavoro capitalista e' per me sfruttamento. La musica invece e' gioia e rivoluzione, ricerca e scoperta, emozione e sentimento. Sono concetti antitetici. Ogni giorno vendo la mia forza lavoro in cambio di un salario, faccio quello che il padrone mi dice di fare per otto lunghissime ore. Ma poi, una volta tolta questa metaforica tuta blu, sono libero di dedicarmi alle mie passioni: la musica, il cinema, l'arte, la fotografia. Quelle restano fuori dall'ufficio prigione, lo trascendono, stanno mille migliaia di miglia piu' in alto.

E infine, sull'essere indiscreti. Un paio di giorni fa mi sono arrivate ben due mail di amiche che non si conoscono, ed entrambe mi chiedevano che senso possa avere condividere i miei fatti personali con un pubblico di persone che non conosco personalmente. Mi hanno fatto riflettere. La risposta e': non lo so, forse nessun senso del tutto.
Anonimo ha detto…
Nonostante viva nei dintorni di Milano da quando ho memoria condivido il sentimento di fuga... andare lontano da questa periferia del mondo, in un posto più grande, alla ricerca della vita.
Un giorno conobbi una ragazza che viveva a Berlino, dove tanto sognavo di andare a studiare. Ma la descrizione che ne fece combaciava perfettamente con Milano e, allo stesso modo, anche lei voleva andar via.
Quando ebbi un assaggio di vita in terra straniera capii che contava mettersi in gioco e crearsi la vita intorno piuttosto che adagiarsi nella routine o rincorrerla chissà dove.
Forse ci sono tanti motivi per condividere i propri pensieri con sconosciuti.. ad ogni modo da lettore quasi vouyerista (ho interagito ben poco fin'ora) ti voglio ringraziare per la musica che sto conoscendo man mano e qualche spunto di riflessione sulla vita, l'universo e Tutto Quanto.

ciao

'ndrea
Anonimo ha detto…
Sono stato in Inghilterra per poco tempo, ma anch'io ho avuto quell'impressione di diffidenza per chi non ha il pedigree british. D'altronde, ci sono parecchi altri aspetti che mi piacciono di quella cultura per rendermi quel popolo antipatico per questo motivo.
Sul fatto di lavorare nel campo musicale, mi rendo conto che, facendolo, si sarebbe obbligati a molti compromessi, ma non sarebbe male avere più persone open-minded in giro, con tutte le vaccate che si sentono in giro troppo spesso.

q.
Fabio ha detto…
Ci sono ottime eccezioni, ma se devo dirti la verita' non li considero il popolo che preferisco al mondo.
lophelia ha detto…
ieri sera ha visto il mio blog un'amica che conosco da tanti anni. Tra me e lei senz'altro è sempre stata lei quella apparentemente estroversa, aperta. Piuttosto che scrivere cose personali in rete credo che si farebbe uccidere, e a proposito del blog mi diceva: "Io sarei terrorizzata all'idea che gli altri possano fare dei commenti a quello che dico".
Io ho cercato di spiegarle tutto quello che di bello può darti una cosa del genere: probabilmente lei resterà convinta della sua idea, e io della mia.
Anonimo ha detto…
Fabio,
il racconto sul tuo arrivo a Londra combacia, per certi versi, con la mia esperienza quando più di dieci anni fa trascorsi un'estate a Londra. Avevo deciso di trovarmi un lavoro per mantenermi ma non è stato per niente facile. Alla fine trovai un posto al ristorante del Museo di Storia Naturale a South Kensington.
Gli inglesi non sono decisamente il miglior popolo del mondo ma a Londra se ne trovano ancora? Una certezza, comunque, è che per noi appassionati di musica Londra in Europa resta "la città". E poi gli inglesi sanno fare musica...
Digio
Fabio ha detto…
Hai colto in pieno. C'e' la Londra degli inglesi, in fondo piuttosto noiosa, pub e poco altro, e poi c'e' la Londra di tutti gli altri. Ed e' quest'ultima la citta' viva: il miscuglio di linguaggi, culture, colori che non trovi da nessun'altra parte al mondo - forse ad eccezione di New York. Lasciamoli pure tra di loro gli inglesi. Non e' loro interesse mischiarsi, ma credo che non avrebbero molto da dire. Gli inglesi sanno o sapevano fare musica? Perche' dopo la new wave non mi sembra che dall'Inghilterra sia uscito un gran che di innovativo - ci sono eccezioni certo, i Massive Attack per dirne una. Ma il centro della musica non e' qui in questi anni.
Fabio ha detto…
Lophelia -

Farei un'eccezione pero'. Puoi parlare di te, ma non puoi coinvolgere altri. Recentemente mi sono sentito fare la domanda: ma perche' hai sentito l'esigenza di mettere in comune dei ricordi che dovevano restare solo nostri? Non ho avuto una risposta. E' stato abbastanza imbarazzante ti diro'. Quindi commenti a quello che dico, vanno benissimo. Ma senza coinvolgere altre persone. Non e' mica facile, lo so.
Anonimo ha detto…
Non vorrei dilungarmi troppo su questo post però l'argomento mi sembra molto interessante. E' vero che la new wave è stato un periodo di produzioni musicali qualitativamente elevato (lo dimostra la tesi di fondo del libro di S.Reynolds: tanti capolavori in un così ristretto arco di tempo). E' altrettanto vero che ci sono state buone annate anche negli anni novanta, negli ultimi anni non saprei. Pensa al novantuno, per esempio, l'esordio dei Massive Attack, appunto, "Screamadelica", "Loveless", "Dondestan" di Robert Wyatt, l'esordio degli Orb (che forse ti dirà poco..). E' anche vero che spesso mi chiedo se i Bloc Party o gli Artic Monkeys rappresentino i My Bloody Valentine o i Telescopes se avessi diciotto anni oggi.
Concordo sul fatto che Londra/l'Inghilterra abbiano perso un po' di smalto ma penso anche che questo sia dovuto al fatto che il mercato musicale (brutta definizione ma è così) sia meno americano/anglo-centrico di un tempo.
Anonimo ha detto…
Riprendo e concludo (si fa per dire) il discorso. La "rivoluzione" elettronica degli anni novanta è comunque partita dall'Inghilterra, la jungle, il trip hop anche. Bisognerebbe vedere quanto di inglese (e di inglesi) ci sia, ma la stessa new wave cominciava a guardare al di fuori dell'Inghilterra..
Digio
Fabio ha detto…
'ndrea -

Mi sono reso conto adesso di non averti risposto, scusami. Sul discorso della fuga, arrivando a Londra capisci che qui la fuga, in qualche modo, finisce. E' l'universo condensato in una citta'. Puoi trovare estremo rumore ed estremo silenzio, giungle di cemento e parchi nei quali ti perdi, persone di tutti i colori e provenienze e, mi e' successo di recente, una piccola comunita' ricreata di persone partite dalla mia stessa cittadina. Capolinea, scendere prego. Oppure puoi iniziare un'altra fuga, un viaggio interiore magari. Oppure, per restare in una prospettiva esterna, il recupero di una dimensione piu' piccola e famigliare. Senza incertezze, senza bombardamenti sensoriali. Il Casentino, Gubbio, la Barbagia, non lo so. La dimensione villaggio. Credo che, per me, sara' quello il prossimo viaggio.
Non subito, ora avrei dei ripensamenti. Ma non so se staro' qui ancora altri cinque anni.

Digio -

Tutto vero quello che dici a proposito del passato, sul presente dissento un po'. Dire che gli Arctic Mokeys e i Bloc Party sono l'equivalente contemporaneo di Fall, Telescopes, My Bloody Valentine ecc. a me sembra, prima che musicalmente, sociologicamente/ culturalmente impreciso. Quello spirito di ricerca e' andato perduto completamente nell'Inghilterra di oggi. Wire, che quello spirito porta avanti, e' chiaramente a corto di argomenti - vedi l'ultimo numero: lunghissima intervista a Bert Jansch, articolo interminabile retrospettivo sulla On-U Sound, altrettanto interminabile carrellata sui concerti che hanno scosso il mondo. E sai qual e' per loro il concerto che ha scosso il mondo nel 2006? Stooges all'ATP.

Anche chi tiene occhi e orecchie aperti spalancati, oggi in Inghilterra non trova nulla di interessante. Quello spirito magari ritornera', ma oggi e' proprio perso.