Vi ricordate?
Approfittando del mio ultimo ritorno a Milano, sono finalmente riuscito a incontrare Nicola, che ho conosciuto ormai molti anni fa proprio su questo blog.
Per anni ci siamo proposti di incontrarci fuori dalla rete, nella vita reale, qui a Londra o a Milano. Poi qualcosa e' ogni volta andato storto e abbiamo dovuto sempre rimandare.
Nicola mi e' sembrato di conoscerlo da sempre, una sensazione che ho provato in passato con Laura, Alba, Luca, Tita e tanti altri lettori (reciproci, perche' rispetto alla radio dove uno trasmette e l'altro ascolta, i blog sono uno scambio alla pari).
Sui social network sono molto poco attivo: quando i blog vennero sostituiti da Facebook, Twitter e Instagram, entro' nella mia vita la Gio' e venne cosi' meno quella solitudine che e' spesso il "motore immobile" che ti fa comunicare sulla rete (solitudine per fuggire dalla qual morsa diedi vita a questo blog nel lontano 2003).
Per cui, frequentandoli poco, di social network non so parlare bene come so parlare di blog, lo metto subito in chiaro.
Tuttavia, dubito che in quell'ambiente cosi' saturo e veloce possano nascere relazioni profonde come quelle che nascevano sui blog. Se sbaglio, ditemelo e mi ricredo volentieri.
Scrivere un blog "segmenta", come diciamo noi ricercatori sociali. Richiede tempi piuttosto lunghi, fare un minimo di editing prima di pubblicare, a volte addirittura scrivendo si entra in quello che Csikszentmihalyi definisce "flusso", uno stato di concentrazione che gli estroversi in genere detestano presi come sono da velocita' e multitasking. Ma che per noi introversi e' essenziale per stare bene.
Questo per dire che da quando ho parlato con Nicola davanti a una delle minimo 2 pizze o focacce al giorno che costituiscono la mia dieta milanese, un po' mi e' venuta nostalgia di quegli anni nei quali la sera si apriva il coperchio del computer e si passava da un blog all'altro per leggere pensieri e soffermarsi su foto di chi sentivamo come noi: un po' solo e solitario, un po' sognatore, un po' acuto osservatore.
Adesso che si scorrono velocemente le foto sul telefonino scambiandosi like e' tutto diverso, almeno io ho questa impressione. Infatti di Nicola, Laura, Alba, Luca e Tita non ne ho piu' conosciuti. E un po', lo ammetto, mi spiace.
Perche' certi incontri inattesi e imprevedibili di anime affini ricordo che scaldavano il cuore.
Commenti
Per quanto mi riguarda (e Aristotele non me ne vorrĆ se lo piego al mio scopo) ĆØ stata una delle piĆ¹ positive implicazioni della mia entelechia che mi sono capitate negli ultimi anni. A presto e grazie per le tue righe.
Nicola
Grazie a te per avermi dato ispirazione a riflettere e a scrivere, Nicola.
ma certe dinamiche sono le stesse, sopratutto per ciĆ² che riguarda i commenti.
poi forse tu sei stato fortunato a conoscere persone di un certo tipo ma insomma certi disequilibri c'erano anche lĆ e bastava avventurarsi un po' al di fuori del seminato per avere brutte avventure.
il problema per me sta proprio nella comunicazione virtuale, nell'avvicinare ciĆ² che ĆØ lontano, nella solitudine esibita, nella scomparsa di luoghi di incontro o forse in generale nella scomparsa di un ambiente favorevole all'incontro.
parlo proprio dell'ambiente naturale, in Italia giunto a un punto di devastazione avvilente.
ho passato qualche giorno nella provincia veneta, luoghi che forse erano anche provinciali ma a misura d'uomo, ora sono una distesa di centri commerciali e sushi bar dove i giovani si ingozzano di "all you can eat", fissando i loro smartphone anche se sono col fidanzato o con la fidanzata.
tanta ricchezza forse ma povertĆ assoluta di relazione e cultura, pure se parlano ancora il dialetto che anzi pare essere l'unica cosa che li lega ancora al territorio.
Come tutti gli psicofarmaci, il loro uso dipende da un disagio pregresso, che evidentemente e' molto diffuso, diffuso quanto lo psicofarmaco che le persone prendono per curarlo.
L'altro giorno sono salito al volo su un ascensore, mentre le porte si stavano gia' chiudendo. Dentro, c'era una ragazza sui 25 anni, con una borsa sull'avanbraccio e il telefonino in una mano. Si e' subito immersa a fissare il suo telefonino, come se stesse leggendo qualcosa di interessantissimo. Incuriosito, mi sono mosso verso lo specchio, in modo di potere vedere il suo display senza farmi notare. Ebbene, sai cosa stava fissando con cotanta immersiva concentrazione? La home page, quella con tutte le icone.
A conferma dell'uso dello schermo per schermarsi dal mondo, discorso che tu e io abbiamo gia' fatto se ricordi.
Alle persone che ne sono dipendenti (quelle coppie meravigliose che non dicono piu' una parola, ognuna nel proprio telefonino: fantastiche) sono grato, perche' mi hanno insegnato a usarlo solo quando mi serve, senza abusarne e diventarne schiavo.
Mi hanno fatto capire il piacere di una bella conversazione senza interruzioni, quanto e' bello leggere un bel libro dall'inizio alla fine senza distrazioni, comprare il giornale la mattina per approfondire le notizie, immergermi nei miei pensieri, tenere un taccuino di appunti sempre con me, osservare il mondo dal finestrino di un treno o di un autobus.
Ma noi, tu e io, siamo grandi. Un giovane che non conosce altro modo per relazionarsi se non quello, che uomo diventera'?
Che societa' monadica e dipendente dallo psicofarmaco sempre pronto all'uso e venduto senza foglietto delle controindicazioni e degli effetti collaterali si sta preparando?
Non oso pensarci, sinceramente.
differenze, somiglianze...
anche con FB (lo dissi giĆ ) ho fatto incontri e scambi belli, approfonditi e che stanno durando nel tempo (mentre ho rischiato di rompere vecchie amicizie...e se mai questo ĆØ un effetto dei social che andrebbe indagato)
certo ĆØ diverso il ritmo, la compulsione, per quanto anche il blogging aveva talvolta una connotazione di dipendenza, soprattutto nei periodi di maggiore solitudine.
Ora invece ĆØ un altro uso, infatti gli smartphone si guardano anche mentre si ĆØ in compagnia. Per me la dipendenza ĆØ dagli stimoli: di certe discussioni che mi stanno a cuore (non polemiche), e soprattutto di immagini. Qualche nostalgia dei blog ce l'ho soprattutto perchĆ© eravamo piĆ¹ giovani :D (scherzi a parte certo, erano piĆ¹ "puliti", con un altro respiro)
Dal mio modo di vedere non c'e' nulla di piu' antitetico tra i vecchi blog e Facebook. Pensa solo al fatto di poter mantenere un certo anonimato, nel blog. A quanto questo ci permetteva di esprimerci liberamente. Diresti le stesse cose a tutti quelli che ti seguono in Facebook (compagni delle elementari che non vedi da 30 anni, colleghi che vedi tutti i giorni, persone incontrate in vacanza, appassionati di musica, persone che di musica non capiscono nulla, giornalisti che ti seguono solo perche' tu segui loro...)?
La differenza e' la stessa cha passa tra una discussione intima tra un gruppo di amici disposti a rivelarsi almeno un po' in un bell'ambiente intimo e raccolto e una festa affollata con tante persone tra le quale alcune che preferiresti non incontrare e che invece magicamente sono le piu' loquaci e pronte a commentare ogni cosa che dici.
Vi e' poi la dimensione esibitiva prevalente: mi sono domandato spesso per quali singolari dinamiche le persone vogliono presentarsi per quelle che non sono, specialmente assai piu' felici di quelle che sono (e che francamente dovrebbero essere). Tutta questa stucchevole esibizione di fidanzati, feste, vacanze, animali, figli.
Tutto superficiale, veloce, ridanciano, quando non astioso, competitivo e sarcastico quando provi a sostenere una tesi non proprio prevalente nell'opinione pubblica (tipo che siamo tutti uguali, che il reddito andrebbe redistribuito in parti uguali con una politica di giustizia e espropri mirati, che gli immigrati dovrebbero essere accolti con fratellanza, ecc.).
Dopodiche' ho appena finito un libro intitolato Quiet (Susan Cain) che mi ha fatto capire come alcuni di noi abbiano una propensione per quiete riflessioni mentre altri hanno bisogno di continui scambi superficiali. Proprio come alcuni di noi amano musiche silenziose e ambienti minimali, mentre altri hanno bisogno di affiollamento, musiche molto ritmate, film d'azione.
Oltretutto sto scoprendo un aspetto antropologicamente molto interessante e opposto: FB puĆ² servire moltissimo ad affrontare ed elaborare i lutti. L'estate appena passata ho perso mio padre in modo molto difficile da accettare (complicazioni seguite ad un intervento che gli era stato presentato come inevitabile). Ho sentito il bisogno di condividere alcune cose (non una cronaca, solo alcune immagini e poche parole da cui chi voleva poteva intuire, e che poi ho cancellato). Non solo mi ĆØ stata di temporaneo sollievo la condivisione, ma ho avuto in seguito delle parole di conforto estremamente personali e belle da parte di due persone che dal vivo conosco pochissimo, ma che sono state toccate da ciĆ² che ho condiviso. Probabilmente perchĆ© cercavo di condividere non tanto la mia vicenda personale quanto ciĆ² che di universale c'era in essa. Da lƬ ho iniziato a far caso a quante persone usino FB in questo modo, e mi ĆØ apparso come un ritrovare una dimensione collettiva del lutto e della morte che la nostra societĆ aveva rimosso. Sulla eterogeneitĆ dei contatti posso dirti che ognuno si sceglie quelli che gli vanno piĆ¹ a genio, c'ĆØ modo di personalizzare i post: ma allo stesso tempo anche se non restringi piĆ¹ di tanto l'utenza di fatto parli a chi ti vuol ascoltare. D'altronde se ci pensi il blog era ancora piĆ¹ pubblico....tutti potevano leggerlo, al contrario di un profilo Fb (ed ĆØ anche per questo che l'ho chiuso, perchĆ© poi l'anonimato funziona fino ad un certo punto ormai).
Relativamente al tema del quale stiamo discutendo, la rete personalmente la associo, per esperienza personale, a una dimensione di solitudine. Ho spesso associato London Calling a un messaggio in bottiglia, e quando iniziai a chiudere le mie pergamene in bottiglie galleggianti che affidavo alle correnti ero di fatto molto solo. Condividevo con sconosciuti (alcuni dei quali sono poi diventati amici) perche' non avevo nessuno con cui condividere nella mia realta' quotidiana.
Quindi i blog, sprattutto quelli personali, restano fenomeni piuttosto tristi, almeno per la mia esperienza. Nondimeno trovo tristi i social network. Li trovo tristi e, spesso, falsi. Sono sicuro che non e' il tuo caso, naturalmente e quello che scrivi me lo conferma.
Raccontandoti una cosa molto personale, io faccio parte di quelle persone che nascono introverse e vengono educate come fossero estroverse. Quando ero un bambino sono sempre stato spinto verso attivita' di gruppo, specialmente quando tutto quello che avrei desiderato era starmene per conto mio in compagnia di un libro.
Per cui, quando ho potuto finalmente scegliere, le attivita' di gruppo le ho sempre aborrite. Recentemente una domenica ho fatto una passeggiata in un grande parco, qui a Londra. L'unico criterio che seguivo, arrivato a ogni bivio, era quello di seguire la direzione con meno persone. Dopo 4 - 5 bivi, mi sono trovato da solo. La sensazione di sollievo che ho provato e' difficile da descrivere.
Negli anni, ho imparato che la mia dimensione ideale (quella che mi fa stare bene) e' quella cosa che le culture nordiche chiamano hygge: trascorrere il mio tempo con un piccolo selezionato gruppo di "anime affini" (con gli stessi interessi e lo stesso modo di "sentire"), e tra un incontro e l'altro trascorrere molte ore (spesso intere serate) in compagnia dei miei libri, dei miei dischi, di un taccuino sul quale annotare pensieri.
I social network "rompono questo equilibrio", se sono riuscito un pochino a spiegarmi. Non fanno per me, in altre parole.
Ho pero' l'impressione che l'educazione della quale sopra mi abbia lasciato lo strascico di "doverci essere", che sarebbe "la cosa giusta" da fare. Se a questo aggiungi che dove lavoro avere molti followers e' una pre-condizione essenziale per "essere inclusi" e ricevere riconoscimenti, capisci da sola quanto problematica e' per me questa faccenda dei social network.
Nel mio "mondo ideale" non dovrebbero esistere, in pratica. Ma il mio "mondo ideale" e' molto ma molto diverso dal mondo nel quale siamo capitati, per questo aspetto e per moltissimi altri.
Mi sto occupando di una grossa ricerca sul tema, in 34 Paesi. Stiamo cercando di essere pronti a pubblicare il rapporto l'8 marzo 2018.
Te ne faro' avere una copia, promesso :)
io su questo sarei anche d'accordo e infatti nell'era facebook ho smesso di dire le cose che penso.
perĆ² ricordo anche che nell'era dei blog appena ti avventuravi un po' fuori da quella cerchia di amici (peraltro molto immaginaria) con i quali pensavi di avere delle cose in comune, iniziavano i guai.
e sostanzialmente, se osavi esprimere un pensiero minimamente difforme da quello espresso dalla maggioranza conformista dei lettori e commentatori, venivi relegato nella categoria del "troll".
per questo io non vedo grandi differenze, se non nella questione dell'anonimato.
la tua credo resti comunque un'eccezione che conferma la regola: in fondo il tuo blog ĆØ stato privato fino a un certo punto, proprio perchĆ© legato alla tua attivitĆ radiofonica e diffuso anche attraverso di essa. io infatti ho sempre saputo chi eri leggendoti, anche molto prima di conoscerti di persona e forse prima via mail.
oltre a ciĆ² io rifletto molto su quello che ĆØ diventata la comunicazione e le relazioni nella societĆ fortemente individualista e alienata in cui viviamo.
in questo senso i social network mi appaiono piĆ¹ come degli specchi che come dei scatenatori di fenomeni: in sintesi, essi rispecchiano un malessere che non sono loro a generare ma bensƬ tutte le altre storture ed alienazioni che conosciamo benissimo.
tuttavia (e in questo non vi ĆØ differenza fra blog e facebook) essi modificano, tramite una macchina-protesi, il nostro rapporto con la realtĆ , con conseguenze diverse per ciascuno.
la nostra generazione forse ĆØ al riparo da queste conseguenze, meno sicuro ne sarei per ciĆ² che riguarda i giovani che non conoscono altro e, piĆ¹ in generale, chi non ha gli strumenti critici per diventarne consapevole.
consiglio la lettura (anche a me stesso, visto che ancora non l'ho nemmeno acquistato) di "Il cervello aumentato, l'uomo diminuito" di Miguel Benasayag.
la questione cruciale ĆØ l'ibridazione, come la chiama lui, fra mente e computer e il fatto che quest'ultimo stia diventando una neuro-protesi.
una questione che oltrepassa la faccenda dei social network e investe proprio il senso stesso della nostra vita umana, con conseguenze difficilmente immaginabili(vedi tutta la questione della robotica applicata a qualsiasi cosa o dell'internet delle cose....).
facebook secondo me passerĆ , non so quando ma a un certo punto sarĆ un ricordo.
e, su questo credo che siamo d'accordo, sarĆ meglio cosƬ.
p. s. ora per pubblicare questo commento devo giĆ "dimostrare di non essere un robot"....
E' il combinato disposto di social network e tecnologia mobile che va indagato, perche' e' la seconda che rende i primi onnipresenti e quindi in grado di modificare il rapporto con la realta'. L'enfasi infatti andrebbe collocata sulla seconda. Non solo con riferimento ai social media. Pensa a quanto ad esempio la tecnologia mobile ha trasformato la nostra fruizione delle notizie che oggi ci seguono ovunque.
L'effetto che abbiamo ottenuto non e' una societa' piu' informata e critica. In questi dieci anni non sono nate controculture, generi musicali o letterari anti-sistema, movimenti di rivolta radicale. Al contrario, ormai e' evidente che questa pervasivita' dei mezzi, questa ibridazione tra mente e strumenti di comunicazione, ha occupato spazi di riflessione, osservazione, tempo con noi stessi.
Non e' raro osservare fenomeni che sarebbero risultati ridicoli o addirittura indicatori di disturbi della personalita' solo una ventina di anni fa. Pensa ai selfisti compulsivi, cosi' comuni tra le nuove generazioni.
La riflessione e' stata sostituita dall'ostentazione, il silenzio da un dialogo continuo e stordente che ti segue ovunque.
A giudicare da quello che vedo, e' difficile stabilire se i social network sono specchi di un malessere pregresso come sostieni oppure se contribuiscono a generarlo. Credo siano vere entrambe le cose.
Nascono sicuramente da un'immenso vuoto, ma ne scavano uno ancora piu' profondo dal quale a un certo punto non so se gli utenti riusciranno a uscire.
PS. A proposito di controculture. Domenica siamo andati a sentire la presentazione di un libro sulla musica italiana sperimentale e controculturale degli anni '70 (Battiato, Camisasca, Cacciapaglia, ecc.). A un certo punto uno del pubblico ha chiesto: esistono ancora oggi le controculture? Nella sua domanda ha usato l'espressione "sell out", chiedendo in particolare se i musicisti di oggi sono ancora preoccupati di svendersi, dato che le corporation hanno pesantemente messo occhi e mani su musiche di derivazione (definizione di chi ha posto la domanda) controculturale (pensa al grime).
Ha preso la parola Rob Young (Wire) e gli ha risposto:
1) Che oggi non esistono controculture, almeno nel senso degli anni '60 e '70, perche' non esiste una cultura dominante. Per esempio, oggi ognuno di noi si fa il prprio "palinsesto" televisivo, radiofonico, social. Ognuno diverso e personalizzato. La differenza netta che esisteva un tempo tra cultura e contrcultura non esiste piu'.
2) Che e' scomparso il concetto di "selling out" (svendersi). Oggi un gruppo o un musicista sono ben felici di vendere un proprio pezzo e la propria immagine perche' vengano usati nelle pubblicita' di Levi's, Converse, Adidas... Ha spiegato che qui nel Regno Unito negli anni '70 i musicisti che noi ascoltavamo allora vivevano per lo piu' di sussidi dello stato e questo permetteva loro di non vendersi al miglior offerente. Venendo meno il welfare, e' venuta meno anche la preoccupazione di selling out.
Questa e' la societa' nella quale viviamo, questi sono i giovani del terzo millennio, questo e' (anche) l'effetto dei social network onnipresenti (questa osservazione e' mia).
Automaticamente pensai: non sarĆ che questa stessa percezione la avranno loro su di me quando io inizierĆ² a postare un testo, un commento, un'idea ?
Seguii il fenomeno ancora per qualche tempo, passivamente, senza postare nulla: questa sensazione rimase. Decisi di non accettare altre amicizie, mi scusai personalmente con alcune persone che altrimenti si sarebbero arrabbiate.
Arrivai alla conclusione che Facebook non mi piaceva, non mi serviva, non era adatto alle dinamiche personali che volevo avere e sviluppare. Mi cancellai.
Non mi sono mai pentito.
Quando qualche nuova conoscenza mi pone la fatidica domanda rispondo semplicemente: "No".
su Fb, solo un'ultima cosa: stamani ho pensato a questa discussione leggendo la storia di Severino Cesari, della sua malattia e di quanto di bello ĆØ riuscito a trarne e a condividerne, appunto sul social, creando intorno a sĆ© tanto amore (e non ĆØ un vuoto modo di dire).
Facebook, alla fine, ĆØ quello che noi siamo - o quello che vogliamo che sia.
a presto.
come ho detto sopra, il mezzo ĆØ ciĆ² che siamo o ciĆ² che vogliamo che sia.
Non ci conosciamo, ma ĆØ ugualmente interessante scambiare idee e sentire quelle altrui.
Al di lĆ di molti casi positivi che ciascuno potrĆ citare (gran parte dei quali per mia ignoranza non conosco) io non sono tuttavia convinto in termini generali che
"Facebook, alla fine, ĆØ quello che noi siamo - o quello che vogliamo che sia".
Su questo tema ho sempre sposato la posizione di Marshall McLuhan, e anche senza spingermi a dire dire che "il mezzo ĆØ il messaggio", credo perĆ² che il mezzo non sia mai neutro rispetto al messaggio: si tratta ovviamente solo della mia percezione e della mia esperienza, e come tale vale per me.
Il mezzo Facebook non ĆØ e non sarĆ mai quello che sono, nĆ© quello che io vorrei fosse, semplicemente perchĆ© il mezzo Facebok ĆØ qualcosa di struttualmente altro da me e dal mio tipo di comunicazione.
Mi riconosco molto in queste parole di Nicola: "non mi piaceva, non mi serviva, non era adatto alle dinamiche personali che volevo avere e sviluppare", tanto che vorrei farle mie.
Il tempo della giornata e' per sua natura finito. Se faccio una cosa non ne sto facendo un'altra, quindi scelgo come spendere il mio tempo libero in base ai criteri che cita Nicola: cosa mi piace, cosa mi serve, cosa e' adatto a me e alle dinamiche con le quali intendo relazionarmi al mondo.
Le mie attivita' preferite della giornata (tutte per qualcuno assai antiquate: lettura di libri e giornali, ascolto di musica non convenzionale, passeggiare guardandomi attorno, visitare mostre, vedere film al cinema, intrattenere conversazioni che mi permettano di conoscere le persone che incontro) richiedono un certo livello di immersione e un numero molto limitato di interruzioni e frammentazioni (interruzioni e frammentazioni che associo ai social network e alle messaggerie telefoniche, le cui modalita' di comunicazione sono per loro natura rapide e spezzettate: in questo senso credo che il riferimento a McLuhan abbia molto senso).
Preciso che sto facendo un discorso molto personale: non sto dicendo a nessuno di non usare Facebook. Per quanto mi riguarda puo' anche starci tutto il giorno se gli piace e lo trova adatto a se'.
Rivendico solo il diritto di non esserci, di non parteciparvi, di usare il mio tempo in un modo che mi piace di piu' rispetto a leggere e scrivere messaggi di una riga e faccine. Lo so che non c'e' *solo* quello in Facebook, ma c'e' *soprattutto* quello, e tanto mi basta per chiamarmene fuori.
Relativamente alle controculture, hai ragione Laura, e infatti mi sono espresso male riferendo il pensiero di Rob Young. Il senso era quello che la dicotomia tra cultura e controcultura non e' piu' nettamente definita come lo era negli anni '60 e '70, quando la contrapposizione era piu' radicale, e il rifiuto delle controculture per il "selling out" assai piu' marcato.
Nella musica, per esempio, cultura e controcultura non si fronteggiano apertamente piu'. I contorni sono piu' sfumati, il che mi sembra in linea con l'esempio delle femministe che usano un linguaggio mainstream stravolgendolo.