Diritti e reddito uguali per tutti, senza buttar via la propria esistenza in un ufficio, in una fabbrica, in un cantiere
Un pezzo di Alessandro Gilioli pienamente condivisibile. Da L'Espresso:
Scusatemi, ma non credo al diritto al lavoro.
Credo invece, fortemente, che sia un diritto di ciascuno e di tutti avere una casa, un reddito, i servizi essenziali di salute, istruzione, ambiente e svago: e con la minore dose possibile di forbice sociale.
Del resto il lavoro nel ‘900 era considerato un diritto perché era l’unico mezzo con cui gli esseri umani potevano avere accesso a una casa, a un reddito, ai servizi etc.
Il lavoro quindi non è un fine, è un mezzo.
I diritti di cui sopra invece sono il fine, non il mezzo.
L’equivoco è grave, perché porta a un paradosso: rivendicare come un diritto il costringersi a vita a una condizione che è raramente di soddisfazione e molto più spesso di sottomissione, ricattabilità, umiliazione, insomma di tempo umano pieno di infelicita.
Adesso però siamo in un’epoca in cui il lavoro costituisce una porzione sempre più decrescente in termini di creazione di ricchezza di un Paese.
Non è uno scenario futuribile. E’ in corso. Prendete i fatturati di Google e divideteli per il numero dei suoi dipendenti; poi fate la stessa operazione con una vecchia azienda manifatturiera: vedrete subito la differenza. Abissale.
Il caso è estremo ma la tendenza è quella – e qui se n’è già accennato: algoritmi e iperautomazione stanno arrivando a sostituire gli umani pure nei lavori d’ingegno.
Di lavoro, pertanto, ne resterà poco. Sempre meno.
Il che è un disastro, se il fenomeno è gestito con le politiche della destra – quelle oggi prevalenti in quasi tutto il mondo – perché così sì provoca povertà per molti e sicuro aumento del divario sociale, nonché appunto il paradossale effetto di considerare un osso attorno al quale sbranarsi il poco lavoro che c’è: cioè il buttar via la propria esistenza in un ufficio, in una fabbrica, in un cantiere.
Ma sarebbe una grande chance, questo cambiamento di produzione, se invece fosse gestito redistribuendo univeralmente la ricchezza creata (anche) con strumenti diversi dal lavoro umano. Cioè garantendo alle persone gli stessi diritti che nel ‘900 si conquistavano solo grazie al lavoro, ma adesso ottenibili anche senza: o con molto meno, con un po’.
Credo invece, fortemente, che sia un diritto di ciascuno e di tutti avere una casa, un reddito, i servizi essenziali di salute, istruzione, ambiente e svago: e con la minore dose possibile di forbice sociale.
Del resto il lavoro nel ‘900 era considerato un diritto perché era l’unico mezzo con cui gli esseri umani potevano avere accesso a una casa, a un reddito, ai servizi etc.
Il lavoro quindi non è un fine, è un mezzo.
I diritti di cui sopra invece sono il fine, non il mezzo.
L’equivoco è grave, perché porta a un paradosso: rivendicare come un diritto il costringersi a vita a una condizione che è raramente di soddisfazione e molto più spesso di sottomissione, ricattabilità, umiliazione, insomma di tempo umano pieno di infelicita.
Adesso però siamo in un’epoca in cui il lavoro costituisce una porzione sempre più decrescente in termini di creazione di ricchezza di un Paese.
Non è uno scenario futuribile. E’ in corso. Prendete i fatturati di Google e divideteli per il numero dei suoi dipendenti; poi fate la stessa operazione con una vecchia azienda manifatturiera: vedrete subito la differenza. Abissale.
Il caso è estremo ma la tendenza è quella – e qui se n’è già accennato: algoritmi e iperautomazione stanno arrivando a sostituire gli umani pure nei lavori d’ingegno.
Di lavoro, pertanto, ne resterà poco. Sempre meno.
Il che è un disastro, se il fenomeno è gestito con le politiche della destra – quelle oggi prevalenti in quasi tutto il mondo – perché così sì provoca povertà per molti e sicuro aumento del divario sociale, nonché appunto il paradossale effetto di considerare un osso attorno al quale sbranarsi il poco lavoro che c’è: cioè il buttar via la propria esistenza in un ufficio, in una fabbrica, in un cantiere.
Ma sarebbe una grande chance, questo cambiamento di produzione, se invece fosse gestito redistribuendo univeralmente la ricchezza creata (anche) con strumenti diversi dal lavoro umano. Cioè garantendo alle persone gli stessi diritti che nel ‘900 si conquistavano solo grazie al lavoro, ma adesso ottenibili anche senza: o con molto meno, con un po’.
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