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Qualche considerazione sparsa sulla mostra aperta settimana scorsa alla Tate Modern:

1) Intanto una piccola descrizione. E' una mostra grande, 17 sale in tutto, che intende dimostrare il monumentale impatto filosofico della pop art, e in particolare di Warhol (che a un certo punto ebbe a dire Good business is the best art) sugli sviluppi dell'arte contemporanea. Non del Warhol geniale degli anni '60, attenzione, quello della zuppa Campbell e dei Velvet Underground. Piuttosto del Warhol bollito degli anni '80, che vendeva ritratti a 25,000 dollari l'uno e faceva uno sconto a chi ne ordinava due. Il Warhol che partecipo' a Love Boat, produsse un video dei Curiosity Killed the Cat, fu testimonial di Vidal Sassoon e combino una serie di altre simili malefatte. Peraltro, immaginiamo, divertendosi come un matto.

Tra gli artisti piu' rappresentati, oltre allo stesso Warhol, ci sono Jeff Koons, Keith Haring, Damien Hirst, Takashi Murakami.

2) Alcuni amici mi hanno chiesto com'e' la mostra, e mi sono trovato a non sapere rispondere, io che di solito esco da una mostra (un film, un concerto) esprimendo giudizi piuttosto polarizzati. Alla fine, direi che e' una mostra che consiglio, ma piu' per la riflessione che suscita che per le opere in se'.

A me peraltro non e' sembrata particolarmente illuminante sul rapporto tra arte e business, per capire il quale e' assai piu' utile visitare una casa d'aste e leggere l'FT Weekend. Piuttosto mi e' sembrata una rassegna/ dimostrazione della capacita' che hanno avuto i nomi piu' in vista dell'arte contemporanea di guadagnare una presenza costante sui media: di usarli e in qualche misura di lasciarsi usare. Di stabilire un'immagine pubblica.

3) In questo senso e' una mostra sulla modernita', nell'arte ma non solo: negli stili di vita, nel sistema sociale e in quello economico. E' soprattutto una mostra volta a dimostrare l'impatto dei media, e delle forze di mercato che li governano, sulla nostra percezione del mondo, compresa la nostra comprensione/ fruizione dell'arte.

4) Il paradosso chiave della mostra, per come l'ho individuato io, sta da una parte nella sfida ai tabu' sociali (ci torneremo tra un minuto) e dall'altra dall'adesione in fondo acritica a uno dei valori fondanti della societa' stessa, il materialismo che si esprime attraverso le forze del mercato. Tutto, nel percorso della mostra, viene fatto oggetto di sfida, tranne le supreme leggi della domanda e dell'offerta. Ad esse, e solo ad esse, ci si flette, senza opporre alcun tentativo di resistenza critica. Se perche' sarebbe inutile, oppure per convinzione (oppure per reazione ai movimenti degli anni Settanta), questo la mostra non lo fa capire esplicitamente, e resta all'interpretazione del visitatore.

5) Naturalmente, non necessariamente l'adesione alle logiche del mercato genera aberrazioni. Ad esempio, nel caso di Haring e di Murakami (o Takashi, non so mai qual e' il nome e qual e' il cognome nel caso dei Giapponesi), l'opera dell'artista viene riprodotta e declinata in forme accessibili a tutti (le penne di Haring, i pupazzetti di Murakami). Se vuoi l'originale a tutti i costi, naturalmente e' disponibile, a un costo significativamente multiplo.

6) Quello che forse mi ha maggiormente colpito e' l'endorsement del concetto di brand: non solo l'artista si fa lui stesso brand, ma con altri brand costituisce alleanze. E' il caso, ad esempio, di Murakami, che ha recentemente chiesto e ottenuto che all'interno di una sua mostra personale trovasse spazio un punto vendita Louis Vuitton nel quale vendere le scarpe realizzate dall'artista (peraltro, ammettiamolo, fantastiche). Celebrazione estrema della consumer culture - e non venitemi a raccontare che forse sotto sotto una critica ci potrebbe anche essere, perche' io non ce la vedo proprio (men che meno in Hirst, del quale viene ricostruita l'asta di Sotheby's che vi avevo raccontato a Radio Popolare l'anno scorso, quella arrivata a 111 milioni di sterline complessive, il giorno del fallimento di Lehman Brothers).

7) La sala nella quale mi sono soffermato piu' a lungo e' stata la ricostruzione del Pop Shop di Haring (sulla Lafayette mi pare, dove nel 1991 comprai una felpa con il cane che balla, che metto ancora oggi). Fantastici, anche se gia' visti molte volte, i video di Haring all'opera, compreso uno che non avevo mai visto di un Haring alla scuola d'arte, anno di grazia 1978, che fa graffiti ascoltando a tutto volume il primo devastante album dei Devo. La sala nella quale mi sono soffermato meno e' stata quella dedicata a Cattelan.

8) Il catalogo non e' disponibile. Tutte le copie sono state ritirate il giorno prima della mostra, dalla Met (la polizia di Londra). La ragione e' che contenevano una fotografia che sarebbe dovuta essere parte della mostra e che sempre la Met ha solertemente sequestrato. Si tratta di un lavoro di Richard Prince, intitolato Spiritual America: un ritratto di Brooke Shields a 10 anni, in piedi nella vasca da bagno. L'iniziativa e' stata di un gruppo religioso, il che dice moltissimo sui gruppi religiosi. Non si sa se e quando il catalogo potra' essere venduto (la Met non ha comunicato ancora nulla alla Tate, da quello che mi ha detto l'addetto stampa Sabato).

9) Per gli appassionati di musica segnalo una sala dedicata a Cosey Fanni Tutti, e alla sua celeberrima mostra all'ICA, organizzata con Genesis P. Orridge nel 1976

10) E a proposito di musica, ce n'e' davvero molta nel percorso, dalla colonna sonora rap all'interno del Pop Shop di Haring, fino a un video prodotto da Murakami (che purtroppo non sto trovando in rete, ma meriterebbe), cover di questo brano storico dei Vapors.


[In occasione del suo quinto compleanno, Engadina Calling torna alla radio! Questo post lo racconteremo, Marina e io, Venerdi' 9 Ottobre alle 12, all'interno di Alaska, naturalmente su Radio Popolare.

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