Brit pop

Nel catalogo della mostra attualmente alla Serpentine Gallery, dedicata a Richard Hamilton (catalogo la cui inclusione nella cartella stampa ha permesso a questo blogger di risparmiare un bel po' di sterline), si legge questa dichiarazione (che stra-condivido, essendo come sapete il fan numero 1 del designer tedesco):

My admiration for the work of Dieter Rams is intense and I have, for many years, been uniquely attracted towards his design sensibility, so much that his consumer products have come to occupy a place in my heart and consciousness that the Montagne Sainte-Victoire did in Cezanne's.


Mischiando Duchamp e Warhol, a partire dagli anni '60 Hamilton ha elaborato una versione personale, molto britannica nello spirito, della pop art, con una forte propensione per tematiche agit-prop. La piccola retrospettiva della Serpentine e' incentrata proprio sui suoi lavori piu' politici.

A partire dal mostruoso ritratto del leader del partito laburista Hugh Gaitskell (che in un famoso discorso del 1964 decise di abbandonare la linea pacifista fino ad allora tra i principi guida del partito), fino alla rappresentazione di Tony Blair vestito da pistolero, Hamilton racconta il tradimento degli ideali collettivisti e pacifisti da parte dell'ex partito dei lavoratori.

E se molto efficaci sono l'installazione Treatment room (ispirata dal taglio della spesa sanitaria da parte di Margaret Thatcher, del quale stiamo ancora pagando le conseguenze) e The state e The citizen, commenti alla questione nord-irlandese, a lasciare davvero sgomenti per l'attualita' del soggetto e' Maps of Palestine: un accostamento del territorio palestinese com'era stato concepito dalle Nazioni Unite nel 1948 e qual e' oggi, quasi scomparso.

Hamilton non sara' l'artista piu' subtle della sua generazione, pero' sono uscito dalla mostra pensando che, rispetto a un David Hockney che oggi dipinge pressoche' solo paesaggi, a un Gerhard Richter sempre piu' sentimentale e auto-compiacente (pensate ai ritratti, pur molto belli, dei suoi famigliari), a Gilbert & George sempre piu' ripetitivi e in fondo noiosi, preferisco il suo sguardo arrabbiato e deluso sulla realta'.

E mi rimane dentro un'immagine molto bella vista alla mostra. Una giovane mamma che di fronte a Kent state, racconta alla sua bambina che la guarda assorta di quando negli anni '60 e '70 i giovani scendevano nelle strade in gran numero, rischiando in prima persona, per fermare una guerra in un Paese lontano.

Fino al 25 Aprile.

Commenti

lophelia ha detto…
giovedƬ scorso nel contesto di questa mostra ho assistito ad una lezione di estetica in cui si parlava di "autoreferenzialitƠ dell'opera" a proposito dell'arte di Gerard Richter, riferendosi ad un'arte "autonoma" (che non rimanda ad un oggetto o codice esterno) contrapposta ad un'arte "eteronoma". IL discorso era complesso e non aveva tanto a che vedere con l'essere o no politica dell'arte, o perlomeno non direttamente: ma forse indirettamente c'entra qualcosa.
Fabio ha detto…
C'entra molto secondo me. Tenersi a distanza dalle cose o entrare nel cuore del mondo? Nella vita, nell'arte...

Molto bella la mostra che hai visto, peraltro nelle pile di interviste e articoli su Hamilton che mi sono letto sui supplementi culturali dei giornali inglesi in questi giorni, si parlava proprio della qualita' dell'immagine tradotta dalla fotografia al medium pittorico.

"Variations here use myriad techniques - silkscreen and oil, airbrushing, acrylic, etching, die-stamping, watercolour - to present the image as a relay of information and illusion" scrive il supplemento Life & Arts del Financial Times.

E si', i ritratti di Richter (visti l'anno scorso alla National Portrait Gallery) sono fantastici, ma esprimono una progressiva chiusura al mondo la' fuori.

Hamilton invece e' diventato sempre piu' arrabbiato, e i suoi ultimi lavori, certo per nulla sottili, sono il trionfo del contenuto sulla tecnica.