Frederic Martel, Mainstream (Flammarion/ Feltrinelli, 2010)
Purtroppo stasera non sono riuscito ad andare a vedere questo film che mi avevate consigliato, come mi ero ripromesso. Pero' ho terminato la lettura di un saggio davvero interessante.
Lo ha scritto Frederic Martel, che insegna all'Hec di Parigi e che tutte le domeniche anima una trasmissione d'informazione sull'industria culturale e i media intitolata Masse Critique, che va in onda su France Culture.
Mainstream esplora quelli che sono i contenuti, le provenienze, le dinamiche di mercato della cultura di massa. Che e', certamente, la cultura egemonica, standardizzata, valorialmente innocua e consenziente, pilotata grazie agli ingenti capitali promozionali delle major (musicali, cinematografiche, editoriali).
E pero' se ci fermiamo qui, alla critica, finiamo per non comprendere la realta' attorno a noi, per arroccarci nel nostro mondo di etichette indipendenti e cineforum. Arroccamento che ci fornisce una chiave di lettura della realta' che resta, in fondo, parziale.
Io sono invece sempre piu' convinto che, proprio per raccogliere elementi di comprensione del presente, sia necessario cercare di comprendere le ragioni per le quali certi contenuti, certe rappresentazioni del mondo, raccolgono un successo planetario.
Perche', ad esempio, svago e disimpegno sono i motivi dominanti della cultura di massa? Guardate che non e' una domanda banale, e che non e' affatto facile trovare una risposta valida e soddisfacente. Se siete qui in questo momento, su questo blog, e' probabile che siate tra coloro che ai fenomeni di massa preferiscono percorsi individuali, di ricerca e approfondimento.
Ma non vi e' mai capitato di domandarvi perche' siamo minoranza, e soprattutto per quale ragione parliamo esclusivamente tra di noi, senza riuscire a coinvolgere la grande maggioranza delle persone con le quali entriamo in contatto?
Il libro fornisce alcune risposte interessanti, soprattutto nella sua prima parte, che ripercorre la storia della cultura di massa. Ad esempio, come si e' giunti ai film il cui contenuto e' determinato da focus group, e che vengono proiettati in megaplex di oltre venti schermi, ospitati in centri commerciali (all'interno dei quali lo spettatore non si deve nemmeno preoccupare dell'orario di inizio del film, dato che lo stesso inizia a orari differenti in diverse sale: esattamente nel momento in cui hai finito di fare la spesa e ti sei rifornito di un secchio di pop-corn)? Come nascono i successi della pop music? E attraverso quali dinamiche di marketing un libro si trasforma in best seller?
Insomma, come funziona la macchina della cultura di massa?
Nella seconda parte invece Martel ci racconta l'ascesa delle industrie dell'entertainment nei Paesi emergenti (con speciale attenzione alla produzione di cultura di massa in Cina, India, America Latina, mondo arabo): come si mischiano culture dell'intrattenimento locali e globali.
E contemporaneamente ci racconta il declino della cultura europea, anti-mainstream per definizione: elitaria (sia che si tratti di cultura classica che di avanguardie) e frammentata da divisioni e particolarismi (che sono invece, per noi, ragioni di grande interesse).
La conclusione del saggio di Martel e' che stiamo vivendo cambiamenti epocali, che stanno determinando una nuova geopolitica della cultura e dell'informazione, basata su nuovi poli di aggregazione e una tecnologia, quella digitale, che permette una riproduzione infinita dei contenuti e costi mai cosi' bassi.
Come cambiera' il nostro modo di sentire musica, leggere, vedere film?
Martel non da' una risposta univoca, ma delinea scenari possibili:
1) uno che definisce ispirato a una certa continuita': continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto, ma tutto sara' in digitale, passera' attraverso Internet e gli smart phones (i telefonini intelligenti che rincretiniscono chi li usa, come li ha definiti una mia collega della radio). In buona sostanza, assisteremo a un processo di smaterializzazione, che pero' lascera' sostanzialmente immutati i contenuti. (Io personalmente dissento abbastanza sull'assunzione che sentire un disco sia come suonare un MP3: a me sembrano proprio esperienze diverse, al di la' del contenuto che, certo, resta lo stesso)
2) altri pero' suggeriscono scenari di trasformazione piu' radicale. Pensate alle possibilita' di partecipazione, scomparsa di intermediazione, scambi peer to peer, ecc. offerti dalla rete. Tutto questo ha la capacita' di trasformare radicalmente il nostro modo di interagire con i contenuti culturali dei quali fruiamo e con quelli che generiamo e scambiamo. Resisteranno i concetti di radio, televisione, stampa che conosciamo (media dei quali siamo sostanzialmente fruitori passivi) alle possibilita' trasformative offerte, gia' ora, dai blog e dai siti di condivisione di contenuti, nei quali partecipiamo piu' attivamente?
E che cosa accadra' alla cultura mainstream, e per converso alle controculture, alle avanguardie, alle culture profondamente locali?
Lo ha scritto Frederic Martel, che insegna all'Hec di Parigi e che tutte le domeniche anima una trasmissione d'informazione sull'industria culturale e i media intitolata Masse Critique, che va in onda su France Culture.
Mainstream esplora quelli che sono i contenuti, le provenienze, le dinamiche di mercato della cultura di massa. Che e', certamente, la cultura egemonica, standardizzata, valorialmente innocua e consenziente, pilotata grazie agli ingenti capitali promozionali delle major (musicali, cinematografiche, editoriali).
E pero' se ci fermiamo qui, alla critica, finiamo per non comprendere la realta' attorno a noi, per arroccarci nel nostro mondo di etichette indipendenti e cineforum. Arroccamento che ci fornisce una chiave di lettura della realta' che resta, in fondo, parziale.
Io sono invece sempre piu' convinto che, proprio per raccogliere elementi di comprensione del presente, sia necessario cercare di comprendere le ragioni per le quali certi contenuti, certe rappresentazioni del mondo, raccolgono un successo planetario.
Perche', ad esempio, svago e disimpegno sono i motivi dominanti della cultura di massa? Guardate che non e' una domanda banale, e che non e' affatto facile trovare una risposta valida e soddisfacente. Se siete qui in questo momento, su questo blog, e' probabile che siate tra coloro che ai fenomeni di massa preferiscono percorsi individuali, di ricerca e approfondimento.
Ma non vi e' mai capitato di domandarvi perche' siamo minoranza, e soprattutto per quale ragione parliamo esclusivamente tra di noi, senza riuscire a coinvolgere la grande maggioranza delle persone con le quali entriamo in contatto?
Il libro fornisce alcune risposte interessanti, soprattutto nella sua prima parte, che ripercorre la storia della cultura di massa. Ad esempio, come si e' giunti ai film il cui contenuto e' determinato da focus group, e che vengono proiettati in megaplex di oltre venti schermi, ospitati in centri commerciali (all'interno dei quali lo spettatore non si deve nemmeno preoccupare dell'orario di inizio del film, dato che lo stesso inizia a orari differenti in diverse sale: esattamente nel momento in cui hai finito di fare la spesa e ti sei rifornito di un secchio di pop-corn)? Come nascono i successi della pop music? E attraverso quali dinamiche di marketing un libro si trasforma in best seller?
Insomma, come funziona la macchina della cultura di massa?
Nella seconda parte invece Martel ci racconta l'ascesa delle industrie dell'entertainment nei Paesi emergenti (con speciale attenzione alla produzione di cultura di massa in Cina, India, America Latina, mondo arabo): come si mischiano culture dell'intrattenimento locali e globali.
E contemporaneamente ci racconta il declino della cultura europea, anti-mainstream per definizione: elitaria (sia che si tratti di cultura classica che di avanguardie) e frammentata da divisioni e particolarismi (che sono invece, per noi, ragioni di grande interesse).
La conclusione del saggio di Martel e' che stiamo vivendo cambiamenti epocali, che stanno determinando una nuova geopolitica della cultura e dell'informazione, basata su nuovi poli di aggregazione e una tecnologia, quella digitale, che permette una riproduzione infinita dei contenuti e costi mai cosi' bassi.
Come cambiera' il nostro modo di sentire musica, leggere, vedere film?
Martel non da' una risposta univoca, ma delinea scenari possibili:
1) uno che definisce ispirato a una certa continuita': continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto, ma tutto sara' in digitale, passera' attraverso Internet e gli smart phones (i telefonini intelligenti che rincretiniscono chi li usa, come li ha definiti una mia collega della radio). In buona sostanza, assisteremo a un processo di smaterializzazione, che pero' lascera' sostanzialmente immutati i contenuti. (Io personalmente dissento abbastanza sull'assunzione che sentire un disco sia come suonare un MP3: a me sembrano proprio esperienze diverse, al di la' del contenuto che, certo, resta lo stesso)
2) altri pero' suggeriscono scenari di trasformazione piu' radicale. Pensate alle possibilita' di partecipazione, scomparsa di intermediazione, scambi peer to peer, ecc. offerti dalla rete. Tutto questo ha la capacita' di trasformare radicalmente il nostro modo di interagire con i contenuti culturali dei quali fruiamo e con quelli che generiamo e scambiamo. Resisteranno i concetti di radio, televisione, stampa che conosciamo (media dei quali siamo sostanzialmente fruitori passivi) alle possibilita' trasformative offerte, gia' ora, dai blog e dai siti di condivisione di contenuti, nei quali partecipiamo piu' attivamente?
E che cosa accadra' alla cultura mainstream, e per converso alle controculture, alle avanguardie, alle culture profondamente locali?
Commenti
..comunque io... http://www.youtube.com/watch?v=WjDmKmOtBug
"Anche in una societa' piu' decente di questa".
Non sai quante volte mi sono sentito rispondere "Va beh, auguri".
E comunque: gridavamo cose giuste, e siamo splendidi quarantenni.
Lophelia -
Grazie per il tuo apprezzamento, se hai tempo di scrivere i tuoi pensieri mi fa piacere leggerti, come sempre.
Ai lettori di Engadina Calling segnalo che anche Lophelia (che e' autrice di due tra i blog che seguo con grande passione da sempre) sta in questi giorni affrontando il tema dei media, con un'angolazione interessante.
Io non ho mai gridato molto, ma sicuramente siamo splendidi quarantenni, magari un po' disorientati, ma splendidi quarantenni.
Il libro lo leggerò sicuramente
Sono d'accordo con Fabio: "per raccogliere elementi di comprensione del presente", è "necessario cercare di comprendere le ragioni per le quali certi contenuti, certe rappresentazioni del mondo, raccolgono un successo planetario".
Tuttavia, i motivi del successo di "svago e disimpegno" non mi paiono così misteriosi.
Più interessante mi parrebbe invece cercar di capire com'è potuto accadere che in determinati momenti (a volte davvero un soffio di vento ma altre volte anche qualche anno) non siamo stati minoranza (noi o chi per noi), non abbiamo parlato "esclusivamente tra di noi" ma al contrario siamo riusciti a coinvolgere non so se "la grande maggioranza delle persone" con le quali entravamo in contatto ma certo quantità ingenti -- talvolta enormi -- di persone.
Penso per esempio a esperienze di sintonia tra "immaginario collettivo e simbolico trasformativo" come il '68, il '77 e gli anni tra essi compresi ma anche - restringendo il campo al solo ambito culturale -- ai 50.000 in piazza Navona per Wyatt & Henry Cow, agli anni in cui Cecil Taylor, Sam Rivers o l'Art Ensemble of Chicago facevano il tutto esaurito ovunque in Italia, alla basilica di Massenzio talmente piena di pubblico da dover spostare altrove la rassegna che proiettava film di Rocha, Jancsó, Reisz, Walsh, Wellman, Hawks, Aldrich, Fuller, Ray, Altman, Griffith, Hitchcock, Gance (ecc. ecc.). O anche ai film di Moretti, che sono campioni d'incassi -- cioè sono maggioranza -- anche e soprattutto quando il protagonista dice: "Mi troverò sempre più a mio agio e d'accordo con una minoranza...", come nello spezzone linkato da Hrundi V. Bakshi (e, a proposito del vero Hrundi V. Bakshi, "Hollywood Party" è un film da maggioranze o da minoranze? Blake Edwards era un regista standardizzato, valorialmente innocuo e consenziente, pilotato grazie agli ingenti capitali promozionali delle major?)
A margine, vorrei dissentire anche dall'idea che il contenuto di un disco e di un mp3 sia lo stesso: l'mp3 sacrifica talmente tanta informazione che neppure il contenuto è più lo stesso: di una "Sagra della primavera" suonata con chitarrina e bonghi anziché da un'orchestra sinfonica direste che il contenuto è lo stesso? A seconda del bit rate (cioè del livello di compressione, ovvero della quantità di dati sacrificati) la differenza tra cd e mp3 potrebbe essere "quantitativamente" analoga a quella tra le due versioni del capolavoro stravinskijano.
Ciao
a
mi trovavo a casa del mio maestro di Conservatorio che suonava pure nell'Orchestra della Scala (allora era possibile) e aveva suonato quella partitura decine di volte diretto da Bernstein, Boulez tanto per dirne due.
quello che tutti notammo allora era che il cd permetteva di ascoltare cose che l'ascolto in teatro non permetteva.
in realtà questo era poi il frutto della tecnica DDD che ora diamo per scontata ma allora non lo era.
questo per dire che mi sembra eccessiva tutta la discussione sul'mp3 e la perdita di dati.
in realtà da una parte c'è pure chi dice qualcosa si è perso nel passaggio dal vinile e dall'altra parte la stragrande maggioranza delle persone, fra i quali mi ci metto anch'io, che non nota più alcuna differenza, se mai l'ha notata.
l'orecchio si abitua e il cervello ascolta semplicemente altre cose, tipo per esempio la musica.
non credo neppure che l'mp3 abbia a che fare con il mainstream, anzi è una tecnologia che permette una condivisione di materiale "fuori dal mercato" in quantità che non ci saremmo mai sognati in passato.
e che ormai permette a molti artisti di diffondere più o meno gratuitamente la loro musica.
il libro non l'ho letto ma da quel che capisco dice cose che molti dicono da tempo e alla buon ora.
alla faccia di quelli che sostengono che è la massa, con i suoi gusti presunti standardizzati e/o livellati verso il basso, a determinare le scelte di marketing e non il contrario.
oppure che la stessa massa è stupida e pertanto rende tale la tv e non il contrario.
la differenza fra gli anni 70 e oggi secondo me risiede nella disponibilità ed interesse degli operatori culturali a portare certi contenuti a un pubblico più grosso, disponibilità che a un certo punto (ricordo più o meno la tournée italiana di Patti Smith del 79 come una specie di spartiacque) si è rivolta a certi contenuti a discapito di altri.
insomma, secondo me le figure di mediazione sono centrali nell'analisi di tutti questi fenomeni e io saluto come positivo il fatto che la rete in parte faccia saltare queste figure, una sorta di casta di "burocrati" della cultura che in momenti diversi hanno fatto scelte che magari oggi ci appaiono coraggiose ma che forse allora non lo erano del tutto (esemplare da questo punto di vista il famoso concerto di John Cage al Lirico dove la stragrande maggioranza pensava di andare a sentire John Cale, altro punto di svolta...).
Ascoltare un MP3 scaricato attraverso un computer, anche assumendo che si arrivi un giorno a una compressione minima e impercettibile, sara' sempre per molti di noi come leggere una pila di fotocopie, senza copertina e note, anziche' un libro rilegato, magari comprato in libreria su suggerimento di un libraio che conosciamo e del quale ci fidiamo.
Anche in questo comunque stiamo diventando minoranza.
Vedi anche la mia risposta a Alessandro: la ragione per la quale preferisco un disco a un MP3 ha poco a che fare con la perdita di dati, piu' con la mancanza di tutte le informazioni (anche di tipo grafico) che avvolgono e completano la musica. E' la stessa ragione per la quale non amo i CD masterizzati: se un disco mi piace, desidero possedere l'opera originale. Se un disco non mi piace, molto semplicemente non lo voglio avere. Non mi importa ascoltare tanta musica, piuttosto mi interessa sentire buona musica.
Quello che dici a proposito della casta di burocrati che la rete rende meno indispensabile (e che pero' credo esistera' ancora per un po', pur se affiancata da una pluralita' di opinioni dal basso, piu' o meno valide) puo' essere vero.
Pero' ti copio una frammento del libro che mi sento di condividere:
"Paradossalmente, il digitale e internet hanno rafforzato il mainstream piu' di quanto non lo abbiano indebolito. E' vero che oggi aumentano i prodotti d inicchia, ma e' altrettanto vero che i film di successo e i bestseller hanno un seguito di pubblico come non mai. [...] Il pubblico desidera spesso condividere la stessa cultura di massa, averla in comune. Non necessariamente il fatto che l'offerta sia aumentata porta il grande pubblico a scegliere le cose piu' insolite [...] Il mondo digitale, ancor piu' di quello analogico, e' "hit driven": il successo rafforza il successo".
A me non sembra che, almeno oggi, l'indebolimento della casta di burocrati alla quale fai riferimento abbia portato all'affermazione di nuovi linguaggi. Anzi, mi sembrano anni stagnanti, di conservazione.
Continuo peraltro a non capire per quale ragione non troviate strano che svago e disimpegno siano le cifre dominanti della cultura di massa, quando la scelta di contenuti e' cosi' ampia. E quando, come sostiene Alessandro, nelle nostre vite abbiamo vissuto momenti storici nei quali esperienze di ricerca e impegno erano assai piu' diffuse in strati ampi della popolazione, giovanile e non.
A proposito del non esser stati, in passato, minoranza - e del quando si è iniziati ad esserlo, mi sembra calzante (da tutt'altro punto di vista) questa pubblicità del 1982 che rappresentava la seduzione in maniera impensabile oggi...
Nel senso che gia' oggi "il fruitore puo' scegliere di non essere piu' passivo", eppure non mi sembra che i due mondi si parlino piu' di quanto facevano prima.
La cultura non mainstream e' ghettizzata come la era prima, non si allarga a fasce sempre maggiori di popolazione.
A proposito della pubblicita', bellissima, che proponi, domenica pomeriggio avrei voluto che tu avessi partecipato a una piccola discussione fatta con amici di qui, sulle pubblicita' che si vedono sui muri italiani, qui assolutamente impensabili.
E non per bigottismo secondo me, ma per rispetto. Per rispetto della dignita' delle donne ma, lasciamelo dire, soprattutto dell'intelligenza degli uomini, assai meno attratti da tagli da macelleria di quanto pensano i ritardati, vecchi e malati pubblicitari italiani.
per il resto, il mio parzialissimo e ottimistico sentire deriva sostanzialmente dal fatto che in questi giorni la battaglia su certa Tv sta provocando le prime re-azioni scomposte di difesa (http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2011/mese/02/articolo/4235/), e su tempi certo lunghi si può pensare ad un qualche effetto più profondo.
E' pero' anche vero che i siti di Repubblica e del Corriere, che tutti noi consultiamo ogni giorno, seguono un po' quel modello.
Qualche tempo fa volevo scrivergli consigliando un menu' a tendina per la colonnina a destra, in modo che quello scempio di notizie per cerebrolesi si possa chiudere, dato che la sola presenza viene davvero a noia.
Il berlusconismo, in questo ambito e in tutti gli altri, non si combatte andando dietro a quel modello, ma proponendo un modello culturale e di vita antitetico, radicalmente alternativo.
Che e' quello della sobrieta'. Nel quale non mi sembra che i media brillino, con poche eccezioni, sempre le stesse.
A proposito dei "momenti storici nei quali esperienze di ricerca e impegno erano assai piu' diffuse in strati ampi della popolazione, giovanile e non", ascoltavo ieri mattina il podcast di una puntata di Battiti nel corso della quale è stato presentato il libro su Alvin Curran, il quale a un certo punto racconta questo episodio (dovrò citare a memoria, perché a me quel libro non è stato mandato: Die Schachtel non mi manda nulla dopo che espressi modesto interesse per gli Art Fleury, gruppo di scarso valore già negli anni settanta ma evidentemente importante "a prescindere", come molta roba pseudointellettuale dell'epoca, per Die Schachtel, che applica il ragionamento "non t'interessano gli Art Fluery, Christina Kubisch e Claudio Rocchi? Allora non ti mando neppure Curran, "Musica improvvisa", Pousser, Nuova consonanza, Clementi, Prima materia, Zuccheri, Bosetti ecc."): un giorno, negli anni settanta, Curran prese un treno da Roma a Spezia ma non c'erano posti liberi e così cercò rifugio in uno dei vagoni letto, dove fu accolto da un simpatico ferroviere che, scoperto che lui era un compositore, gli domandò quale musica facesse; Curran rispose che faceva "musica classica contemporanea, elettronica" e il ferroviere, interessatissimo, volle sapere se per caso conoscesse Alvin Curran.
Curran dice che l'Italia era l'unico paese del mondo in cui in quegli anni potesse capitare una cosa del genere: non un professore, un giornalista o un conduttore radiofonico ma un ferroviere che conosceva e amava la musica di Alvin Curran.
Ok, poteva essere un caso e può anche darsi che il ferroviere fosse un musicologo che non aveva trovato altro lavoro ma forse invece no: forse era proprio un ferroviere (d'altra parte io stesso ho conosciuto un ferroviere genovese che recensisce dischi, traduce libri musicali e ne scrive pure), perché in quegli anni non era così raro: io avevo diversi amici operai che ascoltavano gli Henry Cow, Bailey e Zappa, e non penso proprio che fossero eccezioni.
Ma questo accadeva in un clima politico e culturale del tutto diverso da quelli attuali: allora era figo essere di sinistra, così come in campo culturale erano fighi ricerca e impegno. Erano di moda ma essere riusciti a farli diventare di moda fu uno dei punti di forza di quel movimento. Tuttavia le mode sono per natura effimere e non essere riusciti a trasformare l'iniziale attrazione in qualcosa di più profondo fu ovviamente anche la principale debolezza.
Tuttavia, continua a sfuggirmi qualcosa.
Perche' "se per vivere si è costretti a fare un lavoro pesante, brutto, noioso, massacrante" poi si deve buttare via il poco (e quindi prezioso, per definizione) tempo libero a disposizione, in attivita' che non lasciano nulla?
Perche' non canalizzare il tempo libero per contrastare proprio quel padronato che costringe "a fare un lavoro pesante, brutto, noioso, massacrante"?
E guarda che non sto dicendo combatterlo, dico contrastarlo rifiutando i modelli di vita, consumo, intrattenimento che il padronato ci propone.
Rimandandoli, con fermezza, al mittente. Tu padrone (imprenditore come si dice adesso, come puttana si dice escort) vuoi che io mi metta buono buono a vedere Vespa e Il grande fratello? Ebbene, io la tua televisione nemmeno la voglio avere in casa, e la sera la passo sul divano a leggere Saramago.
Non compro una macchina, non metto abiti firmati, aggiusto gli oggetti piuttosto che comprarne di nuovi.
Vivo nella massima sobrieta', in modo da ridurre i tuoi profitti, e quindi il tuo ossigeno. Mi informo ascoltando Radio Popolare e leggendo in rete quotidiani internazionali.
Mi dici cosa ci sarebbe di sbagliato? E soprattutto, perche' e' cosi' lontano dall'accadere? Perche' proprio chi fa "un lavoro pesante, brutto, noioso, massacrante" fa anche le rate per comprare la macchina piu' grande possibile, e ostenta le stesse marche ostentate dal padronato (5 anni fa, peraltro)?
Tutte le mode sono effimere, d'accordo, ma a me piacerebbe che tornassero un po' di moda l'impegno, le buone letture, la musica di ricerca.
La domanda resta ampiamente senza risposta: perche', secondo voi, un tempo, anche se magari come mode, questi comportamenti si sono diffusi a strati ampi e variegati (bellissimo l'esempio di Curran, che non conoscevo) della popolazione?
Anche allora per vivere si era "costretti a fare un lavoro pesante, brutto, noioso, massacrante"...
Posso spezzare una piccola lancia a favore di Die Schachtel? Fabio Carboni e' una persona deliziosa e intelligente, e tempo fa ricordo che nel suo ufficio dove ero andato a comprare i manifesti che decorano il mio soggiorno londinese mi disse: mah, sai, molti all'estero pensano che Die Schachtel sia chissa' che organizzazione... invece sono solo io e ti assicuro che non e' facile fare quadrare i conti...
Da allora ho preferito non chiedergli piu' promo, e i dischi Die Schachtel che ho trasmesso in radio (tra i quali Art Fleury e Claudio Rocchi) li ho comprati tutti di tasca mia. (Tanto Alessandro lo sappiamo in partenza che con Prospettive Musicali andiamo in perdita comunque, ed e' solo la passione per la musica che ci fa andare avanti).
Semmai il sacrificio è guardare Vespa o il Grande fratello che -- al di là di qualsiasi considerazione ideologica -- sono tremendamente noiosi: lo so perché ho anche provato a guardarli, animato da spirito "sociologico", se non addirittura antropologico, ma non ho retto. E non lo dico per fare lo snob.
Neanch'io ho l'auto -- ho fatto scadere la patente ventun anni fa e non l'ha mai più rinnovata -- ma se un abito mi piace e me lo posso permettere non m'interessa (né in positivo né in negativo) se sia firmato o no; ho la tv perché nessuno impedisce ai possessori di tv di leggere Saramago e mi piace avere un atteggiamento laico verso le cose, mentre mi sono accorto che la maggior parte delle persone senza tv la demonizzano perché avendola non saprebbero staccarsene; non faccio più aggiustare quasi nulla perché la millantata riparazione costa ormai più dell'oggetto nuovo e la maggior parte delle volte non ha alcun effetto sul (mancato) funzionamento dell'oggetto: sarò particolarmente sfigato ma è dalla prima riparazione al mio registratore portatile a cassette Philips 2205 (inizio anni settanta) che non mi viene restituito perfettamente funzionante un apparecchio portato a riparare. Persino il computer da cui sto scrivendo è stato riparato con pieno successo riguardo al guasto denunciato ma introducendone uno nuovo.
«Perche' "se per vivere si è costretti a fare un lavoro pesante, brutto, noioso, massacrante" poi si deve buttare via il poco (e quindi prezioso, per definizione) tempo libero a disposizione, in attivita' che non lasciano nulla?» «Perche' proprio chi fa "un lavoro pesante, brutto, noioso, massacrante" fa anche le rate per comprare la macchina piu' grande possibile, e ostenta le stesse marche ostentate dal padronato (5 anni fa, peraltro)?»
Perché credono che sia quello a poter dare loro piacere (di possesso, di status symbol, di non essere da meno dei colleghi ecc.) e non conoscono altri piaceri, probabilmente.
Il fatto è che negli anni settanta si scoprivano certe cose magari anche per moda o per motivi ideologici ma poi ci si accorgeva che davano piacere -- e tanto -- e si continuava a farle-leggerle-guardarle-ascoltarle. Credo che sia anche per questo che "un tempo, anche se magari come mode, questi comportamenti si sono diffusi a strati ampi e variegati (...) della popolazione".
Certo, potrei comprarmi i suoi dischi e libri di tasca mia e probabilmente sarà quello che farò con il libro su Curran ma a quel punto non lo recensirò, perché quando lavoro preferisco essere pagato; posso anche lavorare gratis (come facciamo ormai d'abitudine per "Prospettive musicali") ma mi rifiuto di pagare per lavorare: ho deciso tempo fa che il paletto che pongo è quello.
La passione per la musica mi fa andare avanti e spendere belle fette del mio stipendio in libri e dischi ma non sono i libri e i dischi che recensisco per lavoro.
Secondo te sono uscite in Italia 25 recensioni di "Deep Field" di Joan as Police Woman, anche comprendendo quelle radiofoniche? Usciranno?
Ormai gli uffici stampa assomigliano sempre più alle descrizioni che quella caghetta del ministro "per la pubblica amministrazione e l'innovazione" dà dei dipendenti del pubblico impiego. Solo che gli uffici stampa dei distributori e delle case discografiche non sono dipendenti pubblici ma privati: io non ho conosciuto dipendenti pubblici che rubassero lo stipendio (a parte la caghetta di cui sopra e i suoi amici, nessuno dei quali conosco peraltro di persona) ma nel settore privato ho visto invece diversa gente pagata profumatamente per lavorare un paio d'ore due o tre giorni alla settimana (ce n'erano ben due nella pur minuscola redazione in cui lavoravo in Hachette) e la maggior parte degli uffici stampa discografici fa parte di quella categoria. Tra di loro, quelli che si guadagnano onestamente lo stipendio si contano sulle dita di una mano: Goodfellas, Promorama, Audioglobe/Kizmaiaz e altri uno o due che adesso non ricordo, tutti accomunati dalla pratica di mandarti la lista dei promo disponibili chiedendoti di indicare quali vorresti ricevere per recensirli.
Tutti gli altri adottano la politica del matrimonio con l'etichetta: o recensisci tutte le loro uscite o nessuna. Non importa se rappresentano etichette o distributori che pubblicano dischi sia bellissimi sia orribili, jazz e country, rock ed elettronica e così via: loro vogliono critici che ragionino per case discografiche anziché per musicisti o per singoli dischi e quindi io non posso essere interessato a un disco su tre (o su trenta) di quella data etichetta. Devono interessarmi tutte le loro produzioni o nessuna.
Per non dire dei comunicati stampa di mostre di ceramica, concorsi canini, gare di ballo e qualsiasi altro evento pubblico possa venirti in mente: ormai l'ufficio stampa si fa raccogliendo (o acquistando ma non dai diretti interessati bensì da apposite agenzie) indirizzi email di giornalisti, mettendoli tutti assieme in un unico indirizzario (anziché dividerli per rami di attività, specializzazioni, tipi di testate ecc.: troppa fatica) e spedendo poi a tutti indistintamente qualsiasi comunicato si sia pagati per diffondere, di qualsivoglia argomento.
D'istinto ho pensato ad alcuni classici che ho letto e riletto negli anni: La società dello spettacolo di Debord, La società dei consumi di Baudrillard, Masscult e Midcult di Dwight Mc Donald. Sarà interessante vedere se l'autore inserisce concetti e riflessioni originali rispetto alle coordinate di questi testi oramai datati ma sempre attualissimi, anzi, più attuali ora di quando furono scritti.
Per il resto complimenti a tutti per il dibattito interessantissimo innescato da Fabio e proseguito con ottime osservazioni da parte degli intervenuti.
Il tema è sempre centrale, perché determina le nostre vite, sioprattutto considerando che la politica è (disgraziatamente, aggiungo) sempre più un mero prodotto che sottostà alle leggi del mercato, del marketing, alle teorie del consumo.
Nicola
Nicola
Si' sono molto d'accordo con quello che dici, e infatti nessuno ha fatto riferimento alla dimensione del sacrificio: stiamo parlando di esperienze piacevoli. La sobrieta', l'eliminazione del superfluo, e' spesso un'esperienza molto piacevole ad esempio, perche' permette di liberare tempo e energie.
Resta la domanda: come si puo' rendere tutto questo un paradigma di vita desiderabile? Come si contrasta il paradigma acquisitivo dominante? Perche' a un certo punto di e' smesso di fare-leggere-ascoltare-guardare certe cose, che, come dici tu, si scopriva potevano dare molto piacere, e strati crescenti della popolazione sono entrati in competizione acquisitiva-materialista (quando tutti sappiamo che si tratta di un paradigma disegnato per favorire lo sfruttamento delle classi subalterne e generare bisogni illusori?).
Continuo a pensare che si debba cercare di approfondire questo concetto, perche' solo conoscendolo a fondo vi si possono contrapporre modelli piu' soddisfacenti e interessanti.
Relativamente a quello che dici a proposito di uffici stampa, sono convinto che sia come dici.
Quando scrivevo per il Manifesto pero' ricordo di avere fatto ottime esperienze, con distributori appassionati del loro lavoro, che mi hanno fatto conoscere tanti dischi interessanti.
Uno in particolare, Sandro Favilli della Wide, lo ricordo con particolare affetto. Ricordo che cerco' di capire i miei gusti a fondo, e per esempio mi telefono' personalmente per segnalarmi dischi e artisti (Antony e Joanna Newsom i primi che mi vengono in mente) "che sembrano fatti apposta per i tuoi gusti". Gusti che fini' per conoscere meglio di quanto forse li conosco io stesso.
Si tratta di un testo piuttosto diverso da quelli che citi. Meno filosofico, trattandosi di una ricerca sul campo con tante interviste ai protagonisti, per forza di cose globali, della comunicazione contemporanea. Le conclusioni sono molto pratiche e specifiche, basate su fatti, laddove Debord e Baudrillard (McDonald confesso di non averlo ancora letto) si abbandonano a una visionarieta' propria dei tempi nei quali hanno scritto i loro capolavori.
Fammi poi sapere che ne pensi.
(Ogni tanto mi vieni in mente quando scrivo qui i miei pensierini sui film che vedo. Dico a me stesso: chissa' cosa pensera' Nicola, che il cinema lo conosce davvero, di queste mie elementari riflessioni...).
Nicola
Si tratta, infatti, di avventure di un cinefilo, non certo di critica cinematografica. Impressioni, spesso anche un po' superficiali e senza tanti punti di riferimento.
Ben diverso e' per me scrivere di musica, territorio nel quale ho una mappa con assai meno lacune. Quando scrivevo per il Manifesto, mi diedero una buona formazione, per la quale sono ancora loro grato.
Pero' a commentare i film che vedo forse mi diverto ancora di piu', e forse si sente, per il fatto di muovermi su territori per me pieni di sorprese, assai piu' imprevedibili di quelli musicali.
Spero di riuscire a compensare con la freschezza dell'approccio l'incapacita' di fare einklammerung proprio per mancanza di tanti riferimenti.