Sai che mi piace l'idea di nominare i post con un numero progressivo?
E comunque sì, sono d'accordo, la felicità è quella cosa lì. E non vedo l'ora di tornare a Shoreditch per "fare pratica". Da quelle parti ci riusciva piuttosto bene.
Mi sembra che la numerazione dia un senso di continuita'. Come una storia che ha tanti capitoli. Ogni capitolo usa un linguaggio diverso (un pensiero, una citazione, una foto, la copertina di un disco o di un libro che mi e' piaciuto...) e contribuisce a costruire una storia in divenire che si costruisce giorno dopo giorno.
Saranno terribilmente fuori moda, ma io credo che i blog un senso l'abbiano. Se non altro per il fatto che li puoi trasformare. Un po' anticipano e un po' seguono le tue trasformazioni.
Quindi, seguendo quello che dici, la felicita' e' anche un po' una destinazione :)
Gio ha detto…
No, non intendevo quello, riguardo alla felicità. Non è una destinazione, anche se ho citato un "luogo fisico".
La felicità è certamente il viaggio più che la meta e ancor più il modo di viaggiare, che è poi il modo di vivere, ancor più del percorso.
La felicita' credo vada costruita con tante piccole scelte. Quindi e' percorso. Contemporaneamente punto di arrivo, sfuggente.
Non sono nemmeno sicuro che ci sia un solo tipo di felicita'. Credo ce ne sia, quanto meno, una individuale e una collettiva.
E piu' passa il tempo, piu' la prima mi pare gretta e superficiale e piu' la seconda nobile e profonda.
Credo sempre di piu' che sia il percorso che la destinazione debbano tendere a una felicita' collettiva, plurale come si diceva in un tempo migliore di questo medioevo contemporaneo.
Gio ha detto…
Felicità collettiva. Concetto interessante, ma non è forse la somma delle felicità dei singoli? Non riesco ad immaginare il contrario.
Una “grande” felicità che possa essere ridistribuita, fra i singoli, mi sembra un concetto difficile da esprimere, da immaginare e soprattutto da realizzare, nel medioevo contemporaneo, come in qualsiasi epoca passata, presente o futura.
Forse non ho capito cosa intendi.
Quello che credo è che il concetto di felicità sia qualcosa di talmente astratto, individuale e non definibile in modo universale che ogni tentativo di darne una definizione porta solo a sterili polemiche.
Come ci siamo detti tante volte, esistono i momenti felici, quelli sì, e più o meno tutti ne abbiamo fatto esperienza e forse ci è concesso fare qualcosa nel tentativo di costruirli.
Ma “la felicità”, l’unica che riesco ad immaginare e alla quale riesco ad attribuire questo nome, è la pulsione di un istante, qualcosa che non puoi costruire. E' quella di cui ti ho scritto in privato. Il resto, sono solo parole.
La felicita' collettiva e' il "Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri" di Gaber.
E' farsi un po' da parte, e' condividere, e' sentirsi parte, e' partecipare.
In quanti discorsi che facciamo tu e io abbiamo parlato di salario di cittadinanza uguale per tutti (occupati e disoccupati, bambini e vecchi, nativi e immigrati), o della nostra incapacita' di comprendere il concetto di invidia?
Io la penso come Gio. Anche se capisco cosa intendi, Fabio. La felicità collettiva non esiste. Per sua natura, la felicità è individuale, anche dipende sempre dallàAltro, ma per ognuno è individuale. Un mondo più giusto potrebbe però porre le condizioni, i presupposti perché più persone potessero essere felici. Perché è chiaro che senza un lavoro dignitoso, senza una casa, senza un futuro pensabile è difficile essere felici. La felicità individuale è un attimo, è momentanea, fugace. Bellissima. La serenità di una società però dovrebbe essere un obbiettivo realizzabile, qualcosa per cui impegnarsi. La felicità, come dice Gio, non è un bene che possa essere ridistribuito secondo giustizia. È arbitraria, ingiusta, incalcolabile, imprevedibile, improvvisa. Stare bene non è la felicità.
Poprio un paio di ore fa, passeggiando all'Isola (zona di Milano vicina a dove lavoriamo) Gio e io ci domandavamo come mai questo post non generasse commenti :)
Secondo me la felicita' *puo' essere* "arbitraria, ingiusta, incalcolabile, imprevedibile, improvvisa" come dici, ma io credo che possa essere *anche* una condizione emotiva che costruiamo e proteggiamo ogni giorno.
Sono un po' piu' scettico sull'idea di felicita' individuale. A pensarci, anche bene, non mi vengono esempi. La felicita' e' sempre qualcosa di condiviso, che nasce dall'incontro e dallo scambio. Da solo posso essere sereno, ma raramente sono felice, forse non lo sono davvero mai.
L'infelicita' invece e' spesso un'esperienza molto individuale (e ça va sans dire "arbitraria, ingiusta, incalcolabile, imprevedibile, improvvisa").
Io, che nonostante tutti i miei bei discorsi sul collettivo e il plurale, sono piuttosto individualista, faccio spesso esperienza della seconda.
Solo quando mi apro al mondo (anche a una persona per volta), a volte facendo uno sforzo immane e contro natura, mi ritrovo, a volte sorprendendomi, a provare emozioni positive. L'infelicita' d'incanto scompare.
Poi quelle emozioni positive le possiamo chiamare felicita', serenita', stare bene, ecc.
Mi importa poco etichettarle, disquisirne, perche' mi pare che si finisca nel "Il resto sono solo parole" che ha scritto Gio'. Ne vorrei semplicemente molte di piu' di quelle emozioni.
Bè ma anch'io ho scritto che la felicità dipende sempre dall'Altro. Da soli non si può essere completamente felici, perché manca quell' elemento essenziale che è la condivisione. Però si può essere sereni, che è cosa diversa dalla felicità, anche da soli. È vero comunque che per aprirsi alla possibilità della felicità è necessario un atteggiamento da parte nostra, un'apertura appunto, anche minima. Solo in questo senso dipende da noi. Io sono anche convinta, però, che la felicità sia l'altra faccia (perché tutto ha un'altra faccia) della disgrazia, e che quindi ci sia anche un elemento casuale, o se preferisci, di destino, negli incontri che facciamo.
Alla fine poi, è chiaro che è meglio viverle queste cose che parlarne. Ma io non credo che parlarne lasci il tempo che trova: penso invece che rifletterci ci aiuti a vivere più consciamente, e quindi più profondamente, quello che ci è dato.
Gio ha detto…
Arte che bello che sia qui anche tu, a parlare con noi!
Quando ho scritto "il resto sono solo parole" non intendevo dire che parlarne lascia il tempo che trova. Lo dico perché mi spiacerebbe aver dato questa impressione. Sono invece d'accordo con te sul fatto che parlare della felicità (e non solo) serve ad aumentare la nostra consapevolezza, a farci vivere, come dici, "più profondamente ciò che ci è dato".
Quello che a me sembra giusto fare è la distinzione fra la felicità e altre emozioni positive. Che la felicità rientri a pieno titolo fra le emozioni positive è ovvio, ma non mi sento di dare del tutto ragione a Fabio quando scrive "Poi quelle emozioni positive le possiamo chiamare felicita', serenita', stare bene, ecc.". No, stare bene, essere sereni ecc. è una condizione, essere felici un'altra.
Fabio ed io ne abbiamo parlato più volte ed il mio invito è sempre stato quello a non confondere l'assenza di dolore e di infelicità con la felicità. Soprattutto a non accontentarsi dell'assenza di dolore e di infelicità, considerandola una condizione già di per sè "felice". Non essere infelici è diverso da essere felici. E tanto. E' certamente preferibile vivere in assenza di dolore, ma accontentarsi di questo credo precluda la possibilità di avvicinarsi alla felicità.
Sul fatto che poi la felicità debba sempre e necessariamente essere vissuta come momento condiviso è vero ma non è una verità assoluta. Sapete perché dico questo? Perché penso a Leonardo, che a volte, così senza un motivo apparente, sorride (o compie un gesto gioioso) e se lo guardo interrogativa mi dice "..Eeeeh...mamma...ho uno scatto di felicità...". Spesso sono i bambini che riescono, nella loro semplicità, ad esprimere bene concetti astratti come questo. Lo "scatto di felicità" non c'entra con lo stare bene e con l'essere sereni. E' la foto di un sorriso scattata con l'iPhone in antitesi ad un bel panorama immortalato con la reflex sul cavalletto ed un'apertura calcolata del diaframma. Non so se sono riuscita a spiegarmi.
Ma è per questo che non mi sento di poter definire "felicità" una condizione positiva che coinvolge una moltitudine e neppure come una condizione emotiva che possiamo costruire e proteggere. Quello che possiamo costruire è la serenità, una certa forma di benessere, che, al più, può essere condizione necessaria ma non sufficiente per vivere gli "scatti di felicità".
Mi piace molto quello che avete scritto, l'idea di felicità come risultato di circostanze casuali (un incontro, una circostanza al di fuori del nostro controllo, ecc.), e gli "scatti di felicità" di Leo.
Trovo bellissimo il fatto che i post di London Calling, quelli che preferisco peraltro, a un certo punto mi sfuggano di mano e vadano per conto loro. Io mi limito a seguirli e mi si aprono mondi.
E, confesso, la circostanza al di fuori del mio controllo di due persone che stimo infinitamente, da anni (e a distanze variabili), che dialogano attraverso il mio blog, beh un po' di felicità in me la genera.
Dimostrazione, se fosse necessario, che "parlarne non lascia il tempo che trova", come tutti noi concordiamo. E che a tacerne si finisce per rimuginare e scontrarsi contro muri.
Commenti
E comunque sì, sono d'accordo, la felicità è quella cosa lì. E non vedo l'ora di tornare a Shoreditch per "fare pratica". Da quelle parti ci riusciva piuttosto bene.
Saranno terribilmente fuori moda, ma io credo che i blog un senso l'abbiano. Se non altro per il fatto che li puoi trasformare. Un po' anticipano e un po' seguono le tue trasformazioni.
Quindi, seguendo quello che dici, la felicita' e' anche un po' una destinazione :)
La felicità è certamente il viaggio più che la meta e ancor più il modo di viaggiare, che è poi il modo di vivere, ancor più del percorso.
Non sono nemmeno sicuro che ci sia un solo tipo di felicita'. Credo ce ne sia, quanto meno, una individuale e una collettiva.
E piu' passa il tempo, piu' la prima mi pare gretta e superficiale e piu' la seconda nobile e profonda.
Credo sempre di piu' che sia il percorso che la destinazione debbano tendere a una felicita' collettiva, plurale come si diceva in un tempo migliore di questo medioevo contemporaneo.
Una “grande” felicità che possa essere ridistribuita, fra i singoli, mi sembra un concetto difficile da esprimere, da immaginare e soprattutto da realizzare, nel medioevo contemporaneo, come in qualsiasi epoca passata, presente o futura.
Forse non ho capito cosa intendi.
Quello che credo è che il concetto di felicità sia qualcosa di talmente astratto, individuale e non definibile in modo universale che ogni tentativo di darne una definizione porta solo a sterili polemiche.
Come ci siamo detti tante volte, esistono i momenti felici, quelli sì, e più o meno tutti ne abbiamo fatto esperienza e forse ci è concesso fare qualcosa nel tentativo di costruirli.
Ma “la felicità”, l’unica che riesco ad immaginare e alla quale riesco ad attribuire questo nome, è la pulsione di un istante, qualcosa che non puoi costruire. E' quella di cui ti ho scritto in privato. Il resto, sono solo parole.
La felicita' collettiva e' il "Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri" di Gaber.
E' farsi un po' da parte, e' condividere, e' sentirsi parte, e' partecipare.
In quanti discorsi che facciamo tu e io abbiamo parlato di salario di cittadinanza uguale per tutti (occupati e disoccupati, bambini e vecchi, nativi e immigrati), o della nostra incapacita' di comprendere il concetto di invidia?
Un'altra felicita' e' possibile, io credo.
Secondo me la felicita' *puo' essere* "arbitraria, ingiusta, incalcolabile, imprevedibile, improvvisa" come dici, ma io credo che possa essere *anche* una condizione emotiva che costruiamo e proteggiamo ogni giorno.
Sono un po' piu' scettico sull'idea di felicita' individuale. A pensarci, anche bene, non mi vengono esempi. La felicita' e' sempre qualcosa di condiviso, che nasce dall'incontro e dallo scambio. Da solo posso essere sereno, ma raramente sono felice, forse non lo sono davvero mai.
L'infelicita' invece e' spesso un'esperienza molto individuale (e ça va sans dire "arbitraria, ingiusta, incalcolabile, imprevedibile, improvvisa").
Io, che nonostante tutti i miei bei discorsi sul collettivo e il plurale, sono piuttosto individualista, faccio spesso esperienza della seconda.
Solo quando mi apro al mondo (anche a una persona per volta), a volte facendo uno sforzo immane e contro natura, mi ritrovo, a volte sorprendendomi, a provare emozioni positive. L'infelicita' d'incanto scompare.
Poi quelle emozioni positive le possiamo chiamare felicita', serenita', stare bene, ecc.
Mi importa poco etichettarle, disquisirne, perche' mi pare che si finisca nel "Il resto sono solo parole" che ha scritto Gio'. Ne vorrei semplicemente molte di piu' di quelle emozioni.
Spesso (certo non sempre) dipende da noi.
Però si può essere sereni, che è cosa diversa dalla felicità, anche da soli.
È vero comunque che per aprirsi alla possibilità della felicità è necessario un atteggiamento da parte nostra, un'apertura appunto, anche minima. Solo in questo senso dipende da noi. Io sono anche convinta, però, che la felicità sia l'altra faccia (perché tutto ha un'altra faccia) della disgrazia, e che quindi ci sia anche un elemento casuale, o se preferisci, di destino, negli incontri che facciamo.
Alla fine poi, è chiaro che è meglio viverle queste cose che parlarne. Ma io non credo che parlarne lasci il tempo che trova: penso invece che rifletterci ci aiuti a vivere più consciamente, e quindi più profondamente, quello che ci è dato.
Quando ho scritto "il resto sono solo parole" non intendevo dire che parlarne lascia il tempo che trova. Lo dico perché mi spiacerebbe aver dato questa impressione. Sono invece d'accordo con te sul fatto che parlare della felicità (e non solo) serve ad aumentare la nostra consapevolezza, a farci vivere, come dici, "più profondamente ciò che ci è dato".
Quello che a me sembra giusto fare è la distinzione fra la felicità e altre emozioni positive.
Che la felicità rientri a pieno titolo fra le emozioni positive è ovvio, ma non mi sento di dare del tutto ragione a Fabio quando scrive "Poi quelle emozioni positive le possiamo chiamare felicita', serenita', stare bene, ecc.". No, stare bene, essere sereni ecc. è una condizione, essere felici un'altra.
Fabio ed io ne abbiamo parlato più volte ed il mio invito è sempre stato quello a non confondere l'assenza di dolore e di infelicità con la felicità. Soprattutto a non accontentarsi dell'assenza di dolore e di infelicità, considerandola una condizione già di per sè "felice". Non essere infelici è diverso da essere felici. E tanto. E' certamente preferibile vivere in assenza di dolore, ma accontentarsi di questo credo precluda la possibilità di avvicinarsi alla felicità.
Sul fatto che poi la felicità debba sempre e necessariamente essere vissuta come momento condiviso è vero ma non è una verità assoluta.
Sapete perché dico questo? Perché penso a Leonardo, che a volte, così senza un motivo apparente, sorride (o compie un gesto gioioso) e se lo guardo interrogativa mi dice "..Eeeeh...mamma...ho uno scatto di felicità...".
Spesso sono i bambini che riescono, nella loro semplicità, ad esprimere bene concetti astratti come questo.
Lo "scatto di felicità" non c'entra con lo stare bene e con l'essere sereni.
E' la foto di un sorriso scattata con l'iPhone in antitesi ad un bel panorama immortalato con la reflex sul cavalletto ed un'apertura calcolata del diaframma. Non so se sono riuscita a spiegarmi.
Ma è per questo che non mi sento di poter definire "felicità" una condizione positiva che coinvolge una moltitudine e neppure come una condizione emotiva che possiamo costruire e proteggere. Quello che possiamo costruire è la serenità, una certa forma di benessere, che, al più, può essere condizione necessaria ma non sufficiente per vivere gli "scatti di felicità".
:)
Mi piace molto quello che avete scritto, l'idea di felicità come risultato di circostanze casuali (un incontro, una circostanza al di fuori del nostro controllo, ecc.), e gli "scatti di felicità" di Leo.
Trovo bellissimo il fatto che i post di London Calling, quelli che preferisco peraltro, a un certo punto mi sfuggano di mano e vadano per conto loro. Io mi limito a seguirli e mi si aprono mondi.
E, confesso, la circostanza al di fuori del mio controllo di due persone che stimo infinitamente, da anni (e a distanze variabili), che dialogano attraverso il mio blog, beh un po' di felicità in me la genera.
Dimostrazione, se fosse necessario, che "parlarne non lascia il tempo che trova", come tutti noi concordiamo. E che a tacerne si finisce per rimuginare e scontrarsi contro muri.
JC
Finisci per annotarti cose che prima venivano inghiottite nel nulla e ti scordavi per sempre.