Ci sono post che vorrei scrivere, pur sapendo che non hanno gran che senso. Non credo infatti che a nessuno di voi interessi sentire parlare di un documentario etnografico sulla vita in un villaggio del Senegal, girato in bianco e nero nel 1975, che con ogni probabilita' non avra' nessuna remota possibilita' di vedere.
Se il mondo andasse come piace a noi, la televisione sarebbe un meraviglioso contenitore di documentari e cortometraggi indipendenti, classici del cinema di tutto il mondo, ma insomma, se il mondo andasse come piace a noi, tante cose sarebbero del tutto diverse da quelle che sono.
Cosi' un documentario come questo c'e' da ringraziare il cielo se si riesce a intercettarlo una Domenica a mezzogiorno in un cinema semi-vuoto di Bloomsbury, in una proiezione organizzata da un gruppo di studenti della School of Oriental and African Studies.
Altro cinema proprio. A partire dalla presentazione. Una studentessa che si alza, prende la parola e legge alcune note biografiche sulla regista. Safi Faye e' una regista e antropologa senegalese, che ha studiato antropologia a Parigi e direzione cinematografica a Berlino. A quanto pare, a piu' riprese si e' domandata se abbia senso per uno studioso africano dovere andare a studiare la storia di quel continente a Parigi. No, non ha senso infatti. Mi viene in mente peraltro Tiziano Terzani che per studiare la cultura cinese e' andato a New York, come racconta in "La fine e' il mio inizio", ricordate?
E poi, dopo la scarna presentazione, il film. Niente pubblicita', niente trailers, niente distrazioni. Finalmente, finalmente, come dovrebbe sempre essere. Solo un appunto del proiezionista, che scende ad avvisarci che essendo un 16 millimetri, a meta' film dovra' girare la bobina. Io sono cosi' contento di sentire che il film non e' stato riversato in digitale, che si sentiranno scricchiolii e si vedranno graffi, che mi piace gia'. E' la stessa differenza che c'e' tra sentire un LP e un CD in fondo. Non c'e' confronto.
Tutta la prima parte e' girata nel piccolo villaggio dove Safi Faye e' cresciuta. Si parla di siccita', si vedono contadini che dissodano il terreno, si ascoltano i loro discorsi sottotitolati, sulla necessita' di variare le colture oltre quella delle noccioline promosse dal governo senegalese in ossequio alle richieste delle multinazionali americane. Cinepresa fissa, agricoltori nei campi, canti di lavoro, bambini sulle spalle, galline che razzolano. Non serve pero' nient'altro per trasportarci in quel villaggio. Siamo con quegli agricoltori dagli attrezzi irregolari e improvvisati, solidarizziamo con loro. Mi domando se quel villaggio esistera' ancora, se la siccita' avra' dato scampo agli abitanti.
Nella seconda parte del film, un abitante del villaggio decide di cercare fortuna a Dakar. Ci lasciamo alle spalle le relazioni di sostegno reciproco del villaggio. La citta', per chi arriva da fuori, e' un ambiente durissimo. Sfruttamento, disoccupazione, imbrogli. Hai lavorato certo, ma non abbastanza bene. Vattene, e non vedrai la paga promessa.
Il documentario di Safi Faye, il primo lungometraggio girato da una donna nell'Africa sub-sahariana, e' una struggente poesia. Un inno a un passato strangolato dalla siccita' e dalla necessita' di lasciarsi alle spalle reti di solidarieta' per cercare un futuro incerto. Anticipa viaggi piu' lunghi, contrasti piu' stridenti, che sarebbero seguiti una decina di anni dopo e continuano anche oggi.
E no, alla fine non c'e' stato il dibattito, ma ci sarebbe stato benissimo. E in ogni caso, dopo un'esperienza cosi' profonda, come sara' possibile tornare a vedere un normalissimo, banalissimo film?
[E soprattutto, che senso ha scrivere un post come questo, e chi lo leggera'?].
Se il mondo andasse come piace a noi, la televisione sarebbe un meraviglioso contenitore di documentari e cortometraggi indipendenti, classici del cinema di tutto il mondo, ma insomma, se il mondo andasse come piace a noi, tante cose sarebbero del tutto diverse da quelle che sono.
Cosi' un documentario come questo c'e' da ringraziare il cielo se si riesce a intercettarlo una Domenica a mezzogiorno in un cinema semi-vuoto di Bloomsbury, in una proiezione organizzata da un gruppo di studenti della School of Oriental and African Studies.
Altro cinema proprio. A partire dalla presentazione. Una studentessa che si alza, prende la parola e legge alcune note biografiche sulla regista. Safi Faye e' una regista e antropologa senegalese, che ha studiato antropologia a Parigi e direzione cinematografica a Berlino. A quanto pare, a piu' riprese si e' domandata se abbia senso per uno studioso africano dovere andare a studiare la storia di quel continente a Parigi. No, non ha senso infatti. Mi viene in mente peraltro Tiziano Terzani che per studiare la cultura cinese e' andato a New York, come racconta in "La fine e' il mio inizio", ricordate?
E poi, dopo la scarna presentazione, il film. Niente pubblicita', niente trailers, niente distrazioni. Finalmente, finalmente, come dovrebbe sempre essere. Solo un appunto del proiezionista, che scende ad avvisarci che essendo un 16 millimetri, a meta' film dovra' girare la bobina. Io sono cosi' contento di sentire che il film non e' stato riversato in digitale, che si sentiranno scricchiolii e si vedranno graffi, che mi piace gia'. E' la stessa differenza che c'e' tra sentire un LP e un CD in fondo. Non c'e' confronto.
Tutta la prima parte e' girata nel piccolo villaggio dove Safi Faye e' cresciuta. Si parla di siccita', si vedono contadini che dissodano il terreno, si ascoltano i loro discorsi sottotitolati, sulla necessita' di variare le colture oltre quella delle noccioline promosse dal governo senegalese in ossequio alle richieste delle multinazionali americane. Cinepresa fissa, agricoltori nei campi, canti di lavoro, bambini sulle spalle, galline che razzolano. Non serve pero' nient'altro per trasportarci in quel villaggio. Siamo con quegli agricoltori dagli attrezzi irregolari e improvvisati, solidarizziamo con loro. Mi domando se quel villaggio esistera' ancora, se la siccita' avra' dato scampo agli abitanti.
Nella seconda parte del film, un abitante del villaggio decide di cercare fortuna a Dakar. Ci lasciamo alle spalle le relazioni di sostegno reciproco del villaggio. La citta', per chi arriva da fuori, e' un ambiente durissimo. Sfruttamento, disoccupazione, imbrogli. Hai lavorato certo, ma non abbastanza bene. Vattene, e non vedrai la paga promessa.
Il documentario di Safi Faye, il primo lungometraggio girato da una donna nell'Africa sub-sahariana, e' una struggente poesia. Un inno a un passato strangolato dalla siccita' e dalla necessita' di lasciarsi alle spalle reti di solidarieta' per cercare un futuro incerto. Anticipa viaggi piu' lunghi, contrasti piu' stridenti, che sarebbero seguiti una decina di anni dopo e continuano anche oggi.
E no, alla fine non c'e' stato il dibattito, ma ci sarebbe stato benissimo. E in ogni caso, dopo un'esperienza cosi' profonda, come sara' possibile tornare a vedere un normalissimo, banalissimo film?
[E soprattutto, che senso ha scrivere un post come questo, e chi lo leggera'?].
Commenti
in realtà questo post non parla solo del film e di ciò che vi si racconta ma più in generale di passato, presente e futuro.
cioè di quello che ci rimane del passato in questo assurdo presente senza futuro in cui ci tocca vivere.
noi a nostro modo e gli abitanti di quel villaggio nel loro.
personalmente ti ringrazio per la "condivisione".
pare che anche Ozpetek, nel suo ultimo film che non ho visto e che avrà, ingiustamente, molta più diffusione di questo, si sia accorto di questo concetto, a suo dire molto più decisivo e rilevante di quello di "tolleranza".
a presto, francesco.
io forse ho quattro o cinque anni più di te e non posso dire molto di diverso, nel senso che non ho vissuto molto di più di quelle cose ma ne ho ugualmente una terribile nostalgia.
spesso mi chiedo e mi sono chiesto insieme ad altri: ma siamo noi che invecchiando ci siamo rimbambiti come le generazioni prima di noi e come quelle che verranno e a un certo punto ci mettiamo a dire una cosa del genere "ai miei tempi..." ma riveduta e corretta?
oppure davvero allora c'era una magia che ora non c'è più e ora, chi più chi meno, ci aggrappiamo al ricordo degli scampoli di quell'epoca che abbiamo vissuto?
personalmente, oltre a dibattiti, chitarre, bonghi, capelli lunghi, free jazz, Area, Truffaut e via dicendo io ricordo molte cose che davvero non esistono più.
luoghi, odori, panorami, strade, boschi, spiagge, pinete, silenzi, cieli, vestiti, treni, auto, spazi, percorsi, sguardi, case, notti e via dicendo.
tutto è cambiato o è scomparso.
e di ognuna di quelle cose si potrebbe fare una lista interminabile, proustiana direi, anche se non ho mai letto una riga di Proust né mi interessa farlo ma so che ora la mia sensazione è quella, sono arrivato lì, alla "ricerca del tempo perduto".
qualcuno potrà dire che non è un bene e non me ne importa nulla, per me questo basta.
anche se a milano questa ricerca è permessa ormai quasi solo nei ricordi.
niente cinema semi-vuoti la domenica a mezzogiorno, qui ormai in tutte le sale c'è sempre lo stesso film e quando scopri qualcosa che potrebbe incuriosirti, per esempio a me un film intitolato "Rosso come il cielo", non fai in tempo ad organizzarti per andare a vederlo che dopo neanche una settimana o due è scomparso dalla programmazione.
e questo solo per parlare di cinema, lasciamo perdere la musica...
p.s.: l'anno scorso, poi, un film africano ("Mooladé") è stato distribuito anche piuttosto diffusamente, certo non al livello di Vacanze di Natale. Ciao. q.
Mi chiedo se nel documentario si vedevano anche gli uomini svaccati a chiacchierare, visto che sono disoccupati e considerano umiliante coltivare l'orto, un lavoro da donne. Non si fa la fame (in quella zona) ma le differenze rispetto agli anni 70 si limitano al numero delle radio e dei fuoristrada.
ciao
Auro
Almeno poter dire "ai miei tempi"! Le manifestazioni, ai miei tempi, avevano gia' lasciato spazio al gel, e infatti "i miei tempi" sono stati quegli anni '80 che ho trascorso cercando di evitarli.
Proprio come dici: gli anni '70 per come me li posso ricordare avevano un sapore del tutto diverso da ora, sapore di liberta', di espressione, di identita' comunitarie. Sono stati l'eta' dell'oro? Io non ho dubbi: per me, per come sono fatto, per i miei valori si'. E mi rimarra' sempre il rimpianto di non potermi riferire a loro come "ai miei tempi".
Quello che dici a proposito dei film inteerssanti che restano in programmazione pochissimo vale anche per Londra. "old joy", per dire di un film che mi e' piaciuto tantissimo, e' stato credo una settimana in un cinema. Cagate inguardabili come i film con Hugh Grant, il Jerry Cala' londinese, capeggiano le classifiche per mesi. Gli anni '80 non sono mai veramente finiti. I '70 invece, purtroppo, quelli si'.
Q -
Buona visione allora! Poi segnalaci se hai visto qualcosa di interessante. Anche qui un film africano intitolato Bamako ha finalmente raggiunto la distribuzione ufficiale. Lo vado a vedere in questi giorni, poi vi racconto com'e'.
Auro -
Grazie per il tuo racconto. In effetti nel documentario di Safi Faye si vede proprio quello che dici: gli uomini che parlano sotto grandi alberi e le donne che zappano gli orti con i bambini sulle spalle - che un po' inspiegabilmente sembrano dormire alla grande.
ciao e continua così,of course!
Grazie per essere passata a farmi visita e per il tuo sostegno prezioso. Mi sto convincendo che, infatti, post come questo non sono affatto inutili, grazie di cuore per avermi fatto cambiare idea.
grazie ancora per la visita...goodnight and goodluck :)